lunedì 24 ottobre 2016
Il Nobel a Dylan e la "dimenticanza" - ormai irreversibile - del premio al francese sono il segnale della fine della grande tradizione "aristocratica" della poesia europea.
Il poeta francese Yves Bonnefoy (1923-2016)

Il poeta francese Yves Bonnefoy (1923-2016)

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Commentando sulle pagine di questo giornale l’assegnazione del premio Nobel a Bob Dylan, qualche giorno fa Roberto Mussapi ricordava Yves Bonnefoy (1923-2016) come un grande poeta a cui "inspiegabilmente" quel premio non è mai arrivato. Con tutto il rispetto per la qualità artistica, umana, politica di Bob Dylan, non si può dimenticare che l’Accademia svedese tende a premiare autori a cui si possa attribuire, in quel momento, un valore e un significato che va al di là della letteratura. In questo caso si è perfino superato il confine della letteratura, o lo si è spinto al suo estremo limite.Del resto anche Dario Fo non era propriamente uno scrittore, o comunque non uno scrittore di primo piano. Era un performer, un uomo di teatro, un attore, più precisamente un comico con la vocazione alla pedagogia, alla didattica ideologica. Personalmente preferisco Bob Dylan, o almeno il suo stile dimesso e la sua sostanziale estraneità alla politica.

Il fatto è che, come Fo venne scelto perché in Svezia (e non solo) si credeva che Berlusconi riportasse in Italia il fascismo (un’evidente, anacronistica esagerazione), così Bob Dylan è stato premiato, credo, per dare un contributo all’attuale campagna elettorale americana, chiamando in scena, contro Donald Trump, il simbolo più universalmente noto dell’America libertaria e democratica, l’America di chi sta in basso, del nomadismo individualistico e della solidarietà con gli esclusi. Un poeta che canta, un poeta popolare in tutti i sensi.

Torno però a Yves Bonnefoy, che poeta popolare non lo è stato mai e in nessun senso. Non era né facilmente accessibile a tutti, né molto ispirato dai problemi della società. Un suo libro eccezionalmente concentrato nella riflessione sulla poesia moderna e la sua filosofia, Il secolo di Baudelaire, appena uscito da Moretti & Vitali (pp. 236, euro 18), mostra come Bonnefoy sia stato davvero uno degli ultimi rappresentanti, con i suoi coetanei Paul Celan e Andrea Zanzotto, della grande tradizione "aristocratica", pre e postsimbolista, della lirica europea. Qui, accanto a Baudelaire, gli autori che vengono schierati nel sottotitolo sono: Poe, Mallarmé, Rimbaud, Laforgue, Valéry, Hofmannsthal.

L’americano che apre la serie, Edgar Poe, è uno dei prototipi dell’artista di Boston che ama e sogna l’Europa, la sua complessità culturale, le sue eccellenze e raffinatezze estetiche, mentre fa di tutto per rendere "più puro" il comune linguaggio della "tribù" umana in cui vive (come disse di lui Mallarmé nel famoso sonetto in cui ne celebra la memoria). È accaduto nella democratica America, madre anche dell’industria culturale di massa, che alcuni dei suoi più eminenti intellettuali e artisti fossero dei solitari moralmente elitari, degli "europei al quadrato": da Edgar Poe a Orson Welles, da Hawthorne e Henry James a Bernard Berenson, a Eliot e Pound.Per Bonnefoy il poeta americano che conta nella propria tradizione è Poe, non certo Walt Whitman, il cantore delle masse che creano democrazia. Poe, cioè il maestro di Baudelaire, che si immerge e si perde nella folla della città moderna, studia a distanza questa nuova umanità, portandosi dentro vampireschi fantasmi che gli impediscono di uscire da sé, ma gli impediscono anche di diventare schiavo della folla.

Bonnefoy è stato, come ho detto, uno degli ultimi, degni rappresentanti della lirica moderna, il genere letterario della solitudine, dell’estraniazione e dello sgomento. Il solo possibile "uso delle parole" nella situazione di un’arte che sa di non appartenere a "questo mondo", è un uso che somiglia alla "parola di un esule". Parola che è all’opposto del pensiero concettuale, «parola altra (…) che si diletta dunque nell’immaginare altri mondi, addirittura nel crederli reali», dice Bonnefoy.L’intero libro indaga criticamente e di nuovo, con la passione intellettuale di un poeta che non smette di cercare e ritrovare se stesso: di riesaminare e rivivere ciò che è accaduto nella vicenda di questa poesia sempre sull’orlo del silenzio e a cui è toccato, per più di un secolo, il compito di riscoprire un rapporto vitale fra le parole e le cose, fra vita e linguaggio, fra una realtà derealizzata dalle profanazioni della "ragione strumentale" e ciò che trascende questa realtà irreale dal suo interno, ritrovandone la sostanza.

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