mercoledì 4 dicembre 2013
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Quando vinse il Nobel, nel 1992, da tempo era considerato, negli ambienti della poesia, l’autore dell’inglese più bello che si stesse scrivendo. Prodigiosa la sua fusione di lingua inglese e antillana, nutrita dagli echi del francese del Caribe, dai suoni ancora magici di quella terra in cui Shakespeare ambientò la Tempesta e il regno delle voci di Ariel. Walcott ha tramutato la condizione drammatica delle Antille (egli stesso discende da schiavi) in un prodigioso trampolino di lancio per una nuova lingua, un melting pot di cui si sente interprete prescelto: «Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, ho avuto una buona istruzione coloniale, ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese, sono nessuno, o sono una nazione» scrive di se stesso. Walcott è mago non solo nella fusione di lingue, ma anche nella creazione di un’opera poetica che ripristina i tre generi, che chiaramente Eliot teorizzò: la poesia lirica (quella che tutti conosciamo e che è egemone da Petrarca in poi), la poesia drammatica (quella che è stata dimenticata, pur essendo il genere di Eschilo e Shakespeare) e l’epica, vale a dire la strada avventurosa del poema, la poesia che racconta, l’epopea, di cui con Omeros Walcott offre un esempio straordinario.«Walcott ci dà più di se stesso o di un “mondo”; ci dà il senso dell’infinito che è racchiuso nel linguaggio poetico», scrive Josip Brodskij. Il suo verso tanto nelle composizioni brevi quanto in quelle poematiche, letteralmente “naviga”. Da Herman Melville non avevamo più una grande epopea della navigazione e dell’Oceano che ritroviamo, ora, nell’opera del negro rosso che ama il mare.Brodskij, nella sua Lectio in occasione del Nobel, afferma che la poesia è inscritta nel nostro Dna.«È così, sono sempre stato d’accordo su questo con Josip. L’uomo nasce con la poesia, e la poesia con l’uomo. È un rapporto fisiologico. L’uomo non potrà mai strapparsi di dosso la poesia».La poesia quindi è ancora più di una necessità?«Sarà anche una necessità, ma per me è prima di tutto una realtà. Una presenza. Certo se una cosa esiste vuol dire che è necessaria, che non può mancare. La poesia agisce sulla memoria, e in genere obbedisce a una necessità della lingua: la lingua dei colonizzatori è usata oggi da coloro che furono colonizzati, pensiamo alla lingua ispanoamericana, ma allo stesso americano, lingua di uomini che non volevano essere inglesi. Infatti sono nate due lingue e letterature diverse, autonome, ricche. Lo stesso accade nei Caraibi e può accadere altrove. Una necessità di una lingua che non è più quella di prima, a cui pure si connette».Quindi, come peraltro è stato notato reiteratamente, la sua fusione linguistica è anche una visione dell’uomo, attraverso la poesia lei propone un’idea di umanità.«Sì, senza programmarlo, ma di fatto la poesia è sempre il prodotto di una visione del mondo».La poesia può contribuire a una rinascita dell’uomo? Nella sua opera lei mette in scena anche aspetti dell’attuale condizione degradata dell’umanità.«Sì, al poeta occorre fare una forte considerazione sullo stato del genere umano. In generale, all’origine, e nel suo tempo, nel tempo in cui il poeta vive e sta scrivendo. In senso storico, e contemporaneamente riflettendo sul presente. In generale si sta creando da tempo un impero culturale – è un concetto su cui mi sono soffermato spesso – il cui centro probabilmente è la cultura americana. Un impero non è mai una realtà priva di sofferenze e guai, e questo immagino valga anche per la cultura. La difesa della lingua, di ogni lingua è quindi una forma di resistenza culturale. In tal senso ogni scrittore dovrebbe mantenere in vita quanto c’è di significativo e buono nel suo paese, nella sua cultura».Lei lo ha fatto creando una lingua nuova. Adottando la lingua del colonizzatore e trasformandola con lo spirito del Caribe, in senso linguistico e non solo.«Il problema è che la condizione in cui i trova uno scrittore nei Caraibi, con tutte le lingue e melodie differenti, è più ricca di quella del poeta di Londra che ha come unico modello e riferimento la lingua inglese. Le lingue cambiano e si trasformano. E lo scrittore deve seguirne il cambiamento, anche la decadenza. Spesso le lingue che decadono divengono potenziali di eccellente letteratura. Il poeta le prende nel loro stato di decadenza e le nutre con altre… Immaginiamo se Dante avesse scritto la Divina Commedia in latino. Non sarebbe stato nulla di paragonabile. E con una nuova poesia nasceva una nuova lingua».Ogni lingua è una cultura, ogni cultura ha la sua mitologia. Vede una relazione tra poesia e mito?«Non mi sono mai posto una simile questione».Scusi, lei ha scritto Omeros, dove ricompaiono Elena, Ettore, Achille, in una San Lucia transtemporale, accanto a personaggi di epoche diverse. Lei ha scritto un memorabile poema in cui il mito appare nella contemporaneità. Quando dico mito quindi non mi riferisco alla mitologia a cui attingevano certi umanisti e i neoclassici, ma alla dimensione mitica in senso ampio.«Non nego affatto tutto questo, ma ho detto che non mi sono mai posto la questione. Intendo dire, Elena o Achille entrano nel poema come altri personaggi, naturalmente, per la forza evocatrice della poesia, ma io non mi sono mai posto la domanda in termini astratti. Per me il poeta vive un presente in cui convergono tante voci, anche del passato».Comunque lei ha scritto un poema, in un’età in cui pare impresa proibita… È ancora possibile una poesia epica? «Ci sono stati tentativi di scrivere un’epica moderna, ne esistono attualmente. Bisognerebbe però intendersi sul significato del termine “epico”, che nasce all’interno di una certa cultura. La distinzione tra epico e lirico è fondamentale nella letteratura greca e latina, ma non è detto funzioni in altre culture. Per me il modello di epica, ripeto spesso, è l’Eneide di Virgilio, al cui centro agisce un eroe che ha un compito. Ma i pescatori del mio poema non hanno alcun compito… Il termine epico ha un suo senso all’interno della cultura che lo ha generato, ma non è universale».Dall’epica al teatro, termine, concorderà, universale. Dai primi riti nelle caverne alla nascita della tragedia greca, agli elisabettiani, al teatro rituale africano, il termine ha senso universale. Credo che poesia e teatro non possano vivere separati come accade, prevalentemente, seppur con rare e grandi eccezioni, da trecento anni, con la nascita del teatro borghese. Lei è anche drammaturgo.«Scrivo teatro come scrivo poesia. La poesia e il teatro non hanno percorsi separati, in origine, e non devono averli. Naturalmente non mi riferisco a quello che è diventato il teatro in Europa da secoli, una scatola in cui si chiudono delle persone che non possono parlare né agire. Non mi riferisco a quel teatro, ma a quello che esiste dalle origini, che continua a esistere, e che mira con lo spettacolo a coinvolgere lo spettatore, magari analfabeta…»Accadeva nelle rappresentazioni dei tragici, in Grecia, e poi con  Shakespeare e gli elisabettiani...  Quindi poesia e teatro sono affini?«No, non direi affini. Avendo la stessa origine, io dico che sono pressoché identici…»Quando scrive, Derek Walcott è solo, o parte di una realtà più ampia?«La voce del poeta è una voce individuale che appartiene a una realtà generale».Universale?«Forse. Generale, certamente».
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