venerdì 5 novembre 2021
Parigi dedica una grande retrospettiva alla “bambinaia fotografa” che è diventato un caso clamoroso emerso sulla scena dal nulla una dozzina d’anni fa
Un particolare di un autoritratto del 1955

Un particolare di un autoritratto del 1955 - Vivian Maier/Musée du Luxembourg

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Le definizioni strane, vagamente paradossali, sono quelle che il mondo della comunicazione oggi predilige. Così non c’è da stupirsi se il “caso Vivian Maier”, scoperto dopo la sua morte a Chicago nel 2009, è diventato quello della nounou photographe, la bambinaia fotografa; allo stesso modo il romantico John Clare, per le sue elegie della natura che sembrano farne un cantore green in anticipo di due secoli sul nostro tempo, oggi viene da molti ricordato come il «poeta contadino».

Sono definizioni che smuovono l’immaginazione di un pubblico sempre più assediato dalle proposte dell’industria culturale. È vero, innegabile, che Vivian Maier abbia svolto per qualche decennio il lavoro di bambinaia, ma è altrettanto chiaro dalla sua biografia che, come autodidatta, avesse inizialmente cercato di fare il lavoro che per lei è stato, fino quasi all’ultimo, un’irresistibile pulsione quotidiana: fotografare il mondo attorno a sé. Nelle note biografiche di Ann Marks che chiudono il catalogo a corredo della mostra che Parigi gli dedica al Musée du Luxembourg si ricorda che dopo aver venduto una casa ereditata dalla zia morta in Francia si comprò col ricavato una Rolleiflex 6 x 6 (vale a dire il meglio che si poteva desiderare all’epoca tra le macchine fotografiche), e all’età di venticinque anni, ritornata a New York nel 1951, si dedicò appassionatamente a quello che avrebbe voluto fosse la sua vera occupazione: attirata dal fotogiornalismo si recava spesso nelle stazioni di polizia per fotografare gli arresti, oppure non si spaventava a frequentare le zone più losche della città per cercare di catturare nell’immagine la vita nella sua verità anche sgradevole, ma – come accade spesso nell’arte – interessante e talvolta bella da osservare anche nelle sue maligne apparenze.

Il “caso Vivian Maier”, a cui è stato dedicato anche un film, s’impone dopo il 2007 quando un giovane, figlio di un rigattiere, cercando spunti per una ricerca sulla città di Chicago, s’imbatte in un’asta che offre l’intero contenuto di un box messo in vendita perché la proprietaria risulta ormai da tempo morosa. La proprietaria era, appunto, Vivian Maier, che viveva da qualche anno in difficoltà economiche, con problemi di salute, e si era completamente dimenticata delle sue cose abbandonate dentro quel box. Il ragazzo, anche lui artista e appassionato di cinema, John Maloof, per soli 380 dollari acquistò quel lotto e con sua grande meraviglia trovò una cassa nella quale erano stipati migliaia di negativi e centinaia di rullini fotografici ancora da sviluppare: erano quelli che Vivian Maier aveva realizzato con la sua Rolleiflex e, a partire dagli anni 70, con una Leica.

Molti negativi li aveva già sviluppati, ma pochi risultavano stampati perché la “bambinaia” – dovendo lasciare dopo diciassette anni la famiglia Gensburg che l’aveva assunta per prendersi cura dei suoi tre rampolli –, non disponeva più della camera oscura (che aveva ricavato nel bagno del suo appartamento al terzo piano della casa); per questa e anche altre ragioni, da tempo aveva smesso di sviluppare e stampare le foto che eseguiva.

Oggi pare siano centocinquantamila i negativi catalogati, mentre all’epoca del ritrovamento erano circa settecento i rullini ancora da sviluppare. Un’immensa opera alla quale la definizione di patrimonio sta stretta e vale anzitutto nel senso morale dell’autorialità dei negativi, poiché le fotografie stampate sono in gran parte state eseguite dopo la sua morte e dunque non hanno l’imprimatur dell’autrice (questo pone anche un limite al valore di mercato). Poco male, anzi è a suo modo un sollievo, perché, come si può capire, se Maloof ha speso molto del suo tempo per organizzare parecchie mostre negli ultimi dieci anni, questa conoscenza ci ha aperto lo sguardo su un’autrice rimasta troppo a lungo nell’ombra, che ha fotografato continuamente la vita di strada, persone di cui in genere non conosciamo il nome, non di rado neppure il luogo e la data in cui sono stati immortalati, nella singolare situazione di un creatore anonimo che rappresenta l’anonimato di tanti e il mondo della metropoli nella sua nuda realtà.

Ci sono immagini esilaranti in mostra a Parigi, come quella dove a New York una donna armena lotta e si scontra con un poliziotto, oppure quella di un uomo bellamente addormentato su una panchina mentre russa. Ma si sbaglierebbe a credere che Vivian Maier, donna del popolo (le vicende della sua famiglia parlano di una vita semplice ma spesso dura), sia una fotografa naïve che da autodidatta si fa attirare da tutto ciò che vede. C’è sicuramente un momento “compulsivo” nell’azione fotografica di Vivian, ma c’è anche uno straordinario possesso dei mezzi, della composizione e del giusto allineamento degli assi prospettici, dunque una ratio istintiva, se mi si passa l’ossimoro; e forse bisogna tener conto di quello “sradicamento” che dopo averla ricondotta bambina in Francia, nel paese della nonna materna, Saint-Jullien-en-Champsaur, nel 1938 la riportò in America quando si stavano alzando i primi venti del futuro conflitto mondiale; un bouleversement prodotto dal doversi riadattare, anche nella lingua parlata, a un luogo che non aveva nulla a che fare con la bellezza dei paesaggi alpini; e poi di nuovo il ritorno in Francia dopo il 1948, per regolare le questioni dell’eredità lasciata dalla zia, che sarà però l’occasione della scelta definitiva per la fotografia, e la spingerà, con l’aiuto di un fotografo del luogo, a progettare addirittura una impresa che stampi cartoline postali illustrate dalle foto che Vivian scatterà di gran lena ai paesaggi alpini.

Vivian Maier, Digne 11 agosto 1959

Vivian Maier, Digne 11 agosto 1959 - Vivian Maier/Musée du Luxembourg

Retrospettivamente, anche se la decisione è presa e Vivian, tornando in America nel 1951, è ormai determinata a cogliere l’espressione vitale che anima le strade di New York o di Chicago, il contrasto fra il verde delle Alpi francesi e il grigio della metropoli americana incide una ferita profonda sulla psiche della fotografa. Giustamente nell’introduzione Anne Morin rievoca il “fantastico sociale” teorizzato dallo scrittore Pierre Mac Orlan, che aveva dedicato saggi importanti ai più grandi fotografi, da Atget a Kertész e Cartier-Bresson. Nomi che Vivian venendo in Francia aveva certamente imparato ad apprezzare. Il pensiero di Mac Orlan che più sembra corrispondere allo sguardo di Vivian Maier sostiene che «la forza della fotografia consiste nel potere che possiede di creare la morte per un breve attimo. Fa morire tutto quello che vuole per una durata così minima che le persone ritornano dall’aldilà senza aver preso coscienza della loro avventura».

Vivian conosceva la nemesi della fotografia, e questo forse spiega anche perché la maggior parte delle sue foto non le ha poi tradotte in stampe. L’importante era ricreare quell’attimo, quella soglia tra due mondi. Meglio di tutti lo provano i suoi autoritratti dove quasi sempre si riflette in specchi o superfici specchianti generando una mise en abyme che, come sappiamo, è un modo di spingersi oltre la soglia dove comincia la caduta libera in uno spazio infinito e oscuro.

Pare che i bambini l’amassero. In realtà, non è ben chiaro. Se non altro perché lei scelse di essere bambinaia per sopravvivere e non per una spiccata attrazione verso l’infanzia. Le foto di bambini che vediamo in mostra – come anche la frequenza delle bambole in scena – non comunicano affatto uno sguardo felice. I bambini sembrano divinità capricciose, che ti fissano come se celassero retropensieri inconfessabili. È normale, si dirà, in fondo i bambini sono esseri uranici, imprevedibili. Il problema è sapere cosa pensava la fotografa. Nelle sue immagini si può avvertire un alito di “crudeltà” nello sguardo, una certa durezza che si carica di ombre che forse assillano la mente. La sua infanzia, del resto, non fu sempre felice. E poi i bambini che fotografò in America, a New York come a Chicago, erano i nuovi nati di una nazione di pionieri che furono tutt’altro che gente tenera. Quale sarà stata, dunque, la coscienza che guidava l’occhio della nounou photographe?

Parigi, Musée du Luxembourg
Vivian Maier
Fino al 16 gennaio

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