mercoledì 13 gennaio 2021
Il monaco e vescovo norvegese: «Il mondo di oggi ha perso molto del vocabolario richiesto per parlare dell’interiorità. Ma questo non significa che la domanda per una vita interiore sia meno forte»
Il monaco e vescovo norvegese Erik Varden

Il monaco e vescovo norvegese Erik Varden - -

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Il silenzio come «uno stato di allerta » per «essere pronti a un incontro » e una pratica, anche «laica», «potenzialmente benedetta». All’inizio del nuovo anno, Erik Varden, monaco e abate cistercense nato in Norvegia (dove attualmente è vescovo), autore spirituale letto in mezza Europa, ci consegna la prima parola di un viaggio intorno alle «parole del decennio» che su queste pagine ci accompagnerà nelle prossime settimane.

Quando si parla con un monaco o si discute di monachesimo, una delle prime parole che viene in mente è silenzio, visto che monaco deriva da monos, «da solo». Prima di diventare cattolico lei non era credente. In che modo ha scoperto il silenzio?

Penso di aver incontrato per la prima volta il silenzio tramite la musica, perché la vera musica è, in realtà, l’articolazione del silenzio. Fin da quando ero giovane ho ascoltato molta musica. Al contempo coltivavo un grande desiderio di silenzio. Da bambino, quando la mia famiglia era assente e restavo in casa da solo, volevo stare tranquillo e sperimentare il silenzio. Il mio cuore si stava preparando, penso, per quello che avrei conosciuto dopo, la preghiera.

Nel suo libro La solitudine spezzata lei afferma che il mondo contemporaneo ha perso il primato dell’interiorità. Ma oggi vediamo il proliferare di pratiche «spirituali» come la mindfulness, lo yoga e simili. Che differenza esiste tra il silenzio del cristianesimo e il silenzio che non ha Dio?

Penso che il mondo contemporaneo ha perso molto del vocabolario richiesto per parlare dell’interiorità. Ma questo non significa che la domanda per una vita interiore sia meno forte. Sotto certi aspetti questa può anche essere più intensa, ma risulta frustrata e manca delle adeguate modalità di espressione. Ogni pratica che permette la riscoperta di questa dimensione dell’essere è potenzialmente benedetta; sebbene fuori da una cornice di fede esiste sempre il rischio di confondere i mezzi con il fine. Il silenzio senza Dio è una funzione dell’assenza, dove il confronto radicale con se stessi aumenta un senso di solitudine. Per un credente, il silenzio è uno stato di allerta per essere pronti a un incontro, come il profeta Elia sul Monte Oreb. Il silenzio del monaco non è autoisolante, ma l’ambiente presupposto per questa ricerca della comunione.

Dag Hammarskjöld, il compianto segretario generale dell’Onu, volle una stanza del silenzio al Palazzo di Vetro di New York, perché la meditazione - sosteneva - era importante prima di prendere decisioni politiche. Oggi i politici twittano in continuazione, imperversano nei talk show e non sembrano granchè conoscere l’arte del meditare. Come riportare il silenzio nella nostra società attuale?

Decidendo di farlo. Ciascuno può farlo, sia avendo che non avendo spazi destinati a ciò. Questo richiede coraggio, forza di volontà e pratica, ma non è al di là delle possibilità di ciascuno.

Nel suo testo lei cita il teologo e beato John Henry Newman: «Essere a proprio agio vuol dire non essere al sicuro ». Il nostro tempo - era la tesi del filosofo Roger Scruton - ha la mania di rendere sicura ogni cosa: la vita, il lavoro, l’amore… Ma, così, senza pericolo non c’è neppure rischio. Stare in silenzio significa essere aperti a quello che può succedere nell’ascolto. Significa, in definitiva, non avere tutte le risposte.

Uno dei paradossi del nostro tempo, nel quale la nostra fragilità è così palese, non solo nella crisi Covid con le sue conseguenze, è che facciamo tutto quello che possiamo fare per calcolare ed eliminare il rischio. Ma vivere è rischiare. Quello che rende l’insegnamento di Cristo così fresco e, in senso letterale, provocatorio è la sua insistenza su questo punto. Egli lo dice in molti moti: seguire me è pericoloso, ma correre questo rischio è il modo con cui essere liberi e, in definitiva, raggiungere la gioia. Mi sembra dunque legittimo domandarci: la nostra collettiva e ossessiva ricerca di sicurezza, per assurdo, non ci porta piuttosto a sentirsi ansiosi, chiusi e tristi?

Il tema del desiderio torna molte volte nelle sue pagine: «Il nostro tempo è diffidente verso le parole, fugge i dogmi. Eppure, conosce il significato del desiderio. Desidera confusamente, senza sapere che cosa, se non la sensazione di avere in sé un vuoto che necessita di essere riempito». In che modo il silenzio e la pratica del silenzio possono aiutarci ad entrare in una prospettiva religiosa che può colmare il nostro desiderare?

Credo profondamente che quanto lei ha detto sia vero. Penso che molto del dolore interiore possa essere ascritto all’insoddisfazione e al desiderio non soddisfatto. Riconoscere il desiderio è, comunque, potenzialmente umiliante e pericoloso (torniamo al punto di prima, il rischio) quanto più mi fa capire che non ho tutto quello che voglio, che io non sono tutto quello che vorrei diventare o avere dentro di me. Questo è contrario allo spirito del nostro tempo, che ci chiede di proteggere una nostra immagine di successo, trionfo e pienezza. Quanti di noi veramente hanno vite simili? Lo stress di proiettare un’immagine di noi stessi che non corrisponde alla nostra verità più profonda può fiaccare una persona nella propria vitalità al punto da minacciare l’intero senso del sè. Quanto è bello, invece, incontrare uomini e donne che sono in pace con la propria incompletezza, cosa che permette loro di stare in uno stato di maturazione: essi ricevono questa crescita come un dono invece di reclamarlo come una conquista! Se i credenti potessero, coltivando il silenzio, crescere nel coraggio di vivere in questo modo, essi saranno, anche solo con la loro esistenza, un’ispirazione per gli altri, una sorta di apripista nell’autenticità.

È interessante notare che la sua conversione religiosa ha avuto a che fare con la musica: l’ascolto di Mahler vi ha giocato un ruolo rilevante. Musica e silenzio sembrano stare in opposizione. O no?

La musica scaturisce dal silenzio e torna al silenzio. Cosa c’è di più commuovente del silenzio che segue una grande performance musicale, quando il contenuto spirituale di un’opera eccelsa risuona come una sorta di silenzio sostanziale tra i musicisti e l’uditorio, creando al contempo un senso di pienezza e un senso di ulteriore desiderio, tanto più che la musica si rivolge fuori di sé verso una profondità che solo il silenzio può colmare? Penso a un’immagine che mi è cara: l’incomparabile Claudio Abbado dopo la sua direzione della Terza Sinfonia di Beethoven a Lucerna il 17 agosto 2013, una delle sue ultime prove prima di morire. Egli è rapito in un profondo raccoglimento, totalmente arreso alla musica che ha guidato, visibilmente esausto dalla musica stessa, e al contempo raggiante di pienezza e di presenza. Una magnifica immagine del potenziale umano!

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