sabato 16 settembre 2017
All’Argentina di Roma, l’appassionato “Ritratto di una Nazione”: maratona di spettacoli per raccontare la realtà rispetto allo «spirito utopico» del primo articolo della Costituzione.
Va in scena l'Italia fondata sul lavoro
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Una perfetta sintonia fra essere e fare. Un’armonia fra azione e anima. Una delle condizioni per il “bene-essere” è creare una linea retta fra mente, cuore e mani. Negli anni ’70 spopolava e circolava fra le mani dei giovani a tale proposito Lo Zen e l’Arte della Manutenzione della Motocicletta, il romanzo di culto dello scrittore e filosofo statunitense Robert M. Pirsig, in cui si teorizzava l’idillio fra mestiere e “Qualità”: «Qualsiasi lavoro tu faccia, se trasformi in arte ciò che stai facendo… scoprirai di essere divenuto per gli altri una persona interessante e non un oggetto». Fa sorridere amaramente questo spirito utopico alla luce di quello che l’idea del lavoro evoca al giorno d’oggi: disoccupazione, fame, alienazione, umiliazione, ricatto, disperazione, fuga. Così come amaro sarcasmo produce la scritta che campeggia sul maxischermo del palco del Teatro Argentina di Roma e che proietta l’articolo 1 della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro…». È così che, in occasione di Ritratto di una Nazione, un viaggio geografico, culturale e sociale sull’occupazione del nostro Paese, il Teatro di Roma accoglie in platea il pubblico accorso ben consapevole di assistere a una maratona di cinque ore ma desideroso di ricevere dal teatro ciò che la cronaca non può dare: un’agnizione, un’epifania, una riflessione che ti scava dentro al di là dei dati, delle cifre e delle notizie. Insomma, per dirla alla Eliot, quella «conoscenza che abbiamo perso con l’informazione». La scelta di ricordare il principio fondante della nostra Costituzione ottiene un duplice scopo: ci rammenta l’abisso che separa l’ideale dalla realtà ma allo stesso tempo ci invita a coltivare l’utopia. Non a caso al direttore del Teatro di Roma, Antonio Calbi, fautore del progetto insieme a Fabrizio Arcuri che ha curato anche la regia, piace citare Steve Jobs: «L’unico modo di fare un ottimo lavoro è amare quello che fai».



Frutto senz’altro di grande coraggio e passione è quest’impresa titanica che ha commissionato a 20 autori di altrettante regioni un’opera sulla tematica del lavoro. Una sfida, la cui prima parte si conclude questa sera con le prime otto regioni, ma che avrà un seguito la prossima stagione con gli altri 12 tasselli. Una cavalcata teatrale che presenta in apertura un prologo affidato a Maddalena Crippa con Risultato da lavoro di Elfriede Jelinek, premio Nobel per la letteratura 2004. La precisione tecnica e l’anima vibrante dell’attrice brianzola riescono a dar corpo alle astrattezze della riflessione della scrittrice austriaca che prefigura un mondo di brandelli e rottami. E di necessità di dignità e unità della persona ci parla infatti la Crippa che applaude ai reiterati interventi di papa Francesco in tal senso: «Sono in perfetta sintonia con lui. Non si può sull’altare della globalizzazione sacrificare l’uomo e il suo diritto a realizzarsi e ad avere un futuro». A caratterizzare questo primo itinerario di Ritratto di una Nazione è un teatro perlopiù di parola in cui i segni più incisivi e spiazzanti, le emozioni e le tensioni più palpitanti scaturiscono soprattutto da tre monologhi. In Festa Nazionale di Michela Murgia, con una spumeggiante e naturalissima Arianna Scommegna, un esemplare uso dell’arma dell’ironia ammanta la condanna sull’inquinamento e i danni all’ambiente e alla salute delle basi militari della Nato nell’Ogliastra in Sardegna, senza depotenziarne però la drammaticità. In realtà dietro la scelta ironica della giovane scrittrice sarda c’era molta rabbia: «Ne avevo così tanta – confessa la Murgia – che rischiavo di divenire retorica. Dovevo fare un gioco di ribaltamento assumendo totalmente il punto di vista di chi nega l’evidenza e la verità». Un altro tragico capovolgimento lo vive Giovanni, protagonista di Petrolio di Ulderico Pesce. Siamo a Viggiano, nella Val D’Agri in Basilicata e dall’esultanza ed euforia per il posto di lavoro ottenuto grazie all’arrivo dell’Eni e all’apertura del Centro Oli, il più grande giacimento petrolifero d’Europa, si passa all’angoscia per la leucemia, “dono” del gas idrogeno solforato che sale a galla col petrolio, allo sgomento di fronte alla grave perdita del serbatoio che inquina la diga, alla lacerata decisione di denunciare e alle conseguente perdita del posto con annesse umiliazioni e intimidazioni. A incarnare questa parabola vera è lo stesso Pesce, attore lucano dotato di un registro comico e drammatico e autore di inchieste dettagliate e inconfutabili che gli hanno causato problemi senza scalfirne il carattere gioioso: «Ho passato un anno sotto scorta dei carabinieri – ci svela Pesce sorridendo – e mia madre pensava che il delinquente fossi io. In realtà avevo ricevuto minacce per Asso di Monnezza, il mio spettacolo sui traffici dei rifiuti. Quando poi mia madre capì che il criminale non ero io allora mi disse: “ma se proprio vuoi fare teatro perché non ti metti a fare un bel Cechov?”».

A rendere infine memorabile la lunga serata all’Argentina è Davide Enia che con Scene dalla frontiera regala uno di quei momenti che rendono il teatro indispensabile, abbattono le frontiere fra palco e platea e comunicano una sintesi mirabile di verità e vita. L’affabulatore siciliano ci cattura con la storia vera e da lui raccolta di chi svolge un nuovo mestiere: il “rescue swimmer”, il sommozzatore specializzato nel tuffarsi e salvare le vite dei naufraghi. Enia è immenso, fornisce dettagli affascinanti sulla preparazione atletica, psicologica ed etica di questi eroi odierni che nuotano e lottano contro la morte per strapparle quante più esistenze possibili: «Qui salviamo vite – racconta Enia – in mare ogni vita è sacra. Non ci sono colori, etnie, religioni». È una luce vivida all’interno di un cupo affresco di «un’Italia infranta e dolente», come afferma il direttore Calbi il quale, però, il prossimo anno farà salire sul palco imprenditori del nostro Paese che con il loro operato hanno coniugato il termine “lavoro” con quelle che Papa Francesco chiama le «sue parole sorelle: dignità, rispetto, onore, libertà».

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