sabato 2 gennaio 2021
Il sommo poeta evoca la ferita del mancato riconoscimento all’inizio del Paradiso. Ora il dantista Enrico Malato spiega perché e come si dovrebbe porre rimedio a questa storica “offesa”
Enrico Malato

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Un alloro per Dante. Un alloro vero, però, e non soltanto rappresentato in effigie secondo una tradizione che risale all’affresco realizzato tra il 1450 e il 1452 da Benozzo Gozzoli per la chiesa di San Francesco a Montefalco, in provincia di Perugia. Nel dipinto l’autore della Commedia appare con il capo coperto d’alloro a fianco di Francesco Petrarca (la cui incoronazione avvenne effettivamente a Roma, in Campidoglio, nel 1341) e di Giotto, alla cui scuola si deve uno dei più antichi ritratti di Dante. Nel Giudizio Universale nella cappella del Podestà al Bargello di Firenze (1337) il grande esule compare infatti senza l’«amato alloro» evocato già nei primi versi del Paradiso. Ed è proprio nella terza cantica che il tema del riconoscimento poetico si fa più forte, fino all’esplicita rivendicazione che occupa il proemio del canto XXV. Le ragioni di tanta insistenza sono analizzate in uno dei saggi ora raccolti nei Nuovi studi su Dante di Enrico Malato (Bertoncello Artigrafiche, pagine XVIII+518, euro 70,00).

Il libro fa idealmente seguito agli Studi su Dante apparsi nel 2005 in occasione del settantesimo compleanno dello studioso, professore emerito di Letteratura italiana alla Federico II di Napoli e oggi coordinatore della Necod, la Nuova edizione commentata delle opere di Dante promossa dal centro Pio Rajna e in corso di pubblicazione presso la casa editrice Salerno. Il volume più atteso, dedicato alla Commedia e suddiviso in quattro tomi, uscirà nell’anno appena iniziato, nel quale cade, com’è noto, il settimo centenario della morte di Dante. Da qui la proposta di Malato, che suggerisce di solennizzare ulteriormente la ricorrenza realizzando l’incoronazione negata a suo tempo da un concorso di circostanze. In questione, all’epoca, non era soltanto la condizione di Dante che, esiliato da Firenze, desiderava ottenere «’l cappello» d’alloro «in sul fonte / del mio battesmo », ovvero nel battistero di San Giovanni. A ostacolare la sua ammissione tra i poeti laureati era anzitutto la natura stessa del «poema sacro», salutato come opera grandiosa già dai contemporanei, ma penalizzato dal fatto di essere scritto in volgare anziché in latino. È la posizione del bolognese Giovanni del Virgilio, che attorno al 1320 esorta Dante a dare ulteriore prova di sé con una composizione latina. La strategia sarà poi seguita da Petrarca, incoronato per l’epopea classicheggiante dell’Africa e non per il Canzoniere, mentre Dante si sottrae allo stratagemma. La sua aspirazione, osserva puntualmente Malato, «non rispondeva a una banale ambizione personale, ma aveva una motivazione profonda, sigillo dell’impresa eccezionale da lui compiuta».

Dal suo punto di vista, insomma, la Commedia non poteva in alcun modo essere considerata un ostacolo all’incoronazione, perché dell’incoronazione stessa avrebbe dovuto costituire la causa. Dante è consapevole di aver messo mano a un capolavoro, ma non meno importante è l’assunto concettuale attorno sul quale l’intero poema è fondato. Entra in gioco a questo punto il disegno complessivo della Commedia, che sarà indagato nei prossimi volumi della Necod. Malato, che cura in maniera specifica il nuovo commento del poema, ne ha da tempo indicato le linee essenziali, sia in singoli contributi (in particolare sui canti I e X dell’Inferno), sia in quella sorta di anticipazione dell’edizione maggiore che sono i due volumi della collana “I Diamanti”, nei quali il testo della Commedia è affiancato da un prezioso Dizionario dell’opera. Adesso, contemporaneamente ai Nuovi studi su Dante, Malato propone un’altra primizia, ovvero la stesura provvisoria dell’Introduzione a «La Divina Commedia » destinata alla Necod (Salerno, pagine 68, euro 12,00).

Decisivo, come in tutta la riflessione avviata dal filologo fin dagli anni Novanta, è il rapporto fra Dante e il «primo amico» Guido Cavalcanti, la cui presenza-assenza all’interno del poema è riconosciuta come chiave di volta dell’intera costruzione. Si tratta di una prospettiva innovativa, ripresa in più momenti anche nei Nuovi studi su Dante, che integrano la lettura dettagliata di alcuni canti – in ogni senso centrale è quella del XVII del Purgatorio – con interventi sulla situazione testuale del poema e con ritratti di dantisti come Giorgio Petrocchi, al quale si deve la storica edizione della Commedia realizzata nel settimo centenario della nascita del poeta (1965). In estrema sintesi, Dante e Cavalcanti si dividono sulla concezione dell’amore, che per Guido è l’«accidente, che sovente è fero » esaminato nella canzone Donna me prega (una replica, secondo Malato, alla visione spirituale già esposta nella Vita Nuova) e per l’altro è invece istanza di salvezza, impersonata in via definitiva dalla Beatrice del Paradiso.

All’amore cortese si contrappone dunque l’amore cristiano, in un’indagine sulla sostanza dell’esistenza umana e del creato che diventa, da ultimo, contemplazione della natura di Dio. Anche quando sembra che adoperino il medesimo linguaggio, Dante e Guido lo fanno con intenzioni diverse, come dimostra Malato nelle pagine riservate al tema della memoria, che nella Commedia è strumento dell’immaginazione e non mero deposito di ricordi. Anche per questo attribuire a Dante l’alloro che da secoli gli spetta sarebbe un’iniziativa tutt’altro che simbolica. Un atto di memoria, semmai, e forse anche un segno di rinascita.

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