martedì 25 marzo 2014
Si ricorre sempre più spesso alla fecondazione artificiale, anche se inutilmente e con tanti rischi (nascosti agli aspiranti genitori). (V. Daloiso)
 
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Stiamo utilizzando troppo la fecondazione assistita? La domanda campeggia sulla prestigiosa rivista scientifica British Medical Journal, in un articolo pubblicato online il 28 gennaio scorso e pronto per le stampe. E assomiglia a un pentimento. Non a caso a formularla sono un manipolo di luminari impiegati in tre dei più famosi centri universitari internazionali per la riproduzione artificiale: quello olandese di Amsterdam, quello britannico di Aberdeen e quello australiano di Adelaide. Gente che la provetta maneggia tutti i giorni. Che la provetta considera la maggiore scoperta scientifica del ventesimo secolo. Ma che sul suo impiego smodato e ormai contaminato da interessi economici ciechi persino alla salute dei pazienti adesso vuole lanciare un allarme. Si comincia dai numeri della diffusione della fecondazione assistita, e soltanto questi basterebbero a togliere il fiato: dal 1978 al 2003 – venticinque anni – nel mondo sono nati un milione di bambini in provetta. Sono bastati due anni per raddoppiare la cifra: nel 2005 i bimbi erano due milioni. E alla fine del 2013 s’è toccato il record inimmaginabile perfino per gli addetti ai lavori: i nati da fecondazione artificiale sono diventati cinque milioni. Sulla carta, un esercito di “successi” per la scienza odierna, impegnata a rispondere con sollecitudine e con strumenti sempre più tecnologici ai problemi generativi delle coppie. E tuttavia, secondo logica, anche il drammatico attestato di un virus all’apparenza dilagante: la sterilità. Peccato che il virus in questione non esista affatto. Certo, alla scelta di un figlio si arriva sempre più tardi e l’età anagrafica in cui le donne raggiungono stabilità e soddisfazione professionale non corrisponde certo a quella dei loro ovociti, già dopo i trent’anni poco inclini all’essere fecondati con successo. Ma lasciando da parte per un attimo percentuali e grafici arcinoti sulle scarse possibilità di diventare mamme dopo questa famigerata soglia, c’è una verità rivoluzionaria su cui i firmatari dell’articolo pongono l’accento con forza: incinte si rimane, e naturalmente, nella stragrande maggioranza dei casi anche dopo i trenta. Occorre tempo. Anche in questo caso il British Medical Journal offre numeri di per sé dirompenti: su un campione di 350 coppie che pianificano una prima gravidanza, il 95% la ottiene nello spazio di 24 mesi. Due anni di tentativi, insomma, basterebbero per soddisfare quel desiderio, non fosse per quell’abitudine al “tutto e subito” che nel Dna odierno sembra essere stata iscritta direttamente dai tempi di connessione a Internet. Viaggia in 4G la tecnologia di smartphone e tablet, ecco allora che anche i figli devono arrivare in un batter d’occhio. Non lo fanno? Nessun problema: si ricorre alla provetta. Con il risultato che a fronte dell’impennata delle fecondazioni assistite si assiste a una paradossale scomparsa delle patologie per cui quella strada andrebbe battuta, cioè tube chiuse e sterilità accertata su basi fisiologiche ben identificate. L’identikit della coppia con figlio in provetta adesso è quella della “sterilità di origine sconosciuta”. Una scorciatoia etimologica per dire sterilità supposta, inspiegata o mai accertata (e curata con altri mezzi) davvero. Succede così che sul totale delle fecondazioni assistite praticate in Inghilterra nel 2011, soltanto il 12% delle donne fossero davvero sterili a causa di problemi tubarici. Nel gruppo restante campeggiano non meglio specificate “subfertilità” maschili e femminili. E succede – spiega ancora il British Medical Journal - che nei registri nazionali di fecondazione assistita di Paesi come Svezia, Australia, Belgio, Nuova Zelanda, Canada e Stati Uniti non venga indicato per quanto tempo le coppie abbiano provato ad avere figli naturalmente prima di ricorrere alla provetta. Perché succede tutto questo? La risposta è scontata per i firmatari dell’articolo, che il mondo della provetta abitano. Vi dedicano poche righe, che vale la pena comunque di riportare integralmente: «La fecondazione assistita è ormai diventata un’industria che crea enormi profitti, capace di dare valore ai soldi che riceve grazie all’immediato risultato offerto in cambio: le gravidanze. E questo è vero non solo per le cliniche private, ma anche per le istituzioni universitarie e pubbliche, che beneficiano economicamente del numero enorme di coppie che cercano la provetta». Un’analisi tanto asciutta quanto impressionante. Il problema più serio per il team di scienziati è tuttavia un altro, ovvero i rischi della provetta. Che sono altissimi e di cui nessuno parla. «Nessuno li illustra alle coppie. Nessuno effettua ricerche su larga scala», ammoniscono i medici. All’articolo, a questo proposito, è allegata una tabella più che eloquente, in cui vengono messi a confronto i problemi di salute insorti nelle gravidanze da provetta con quelli delle gravidanze naturali: nelle prime c’è il 70% di rischio in più di malformazioni genetiche del bebè, il 90% in più di morte perinatale, e ancora il 50% in più di rischio di nascita pretermine, il 70% in più di nascita severamente pretermine (prima delle 32 settimane). E le statistiche non si fermano alla nascita: la fecondazione assistita ha anche effetti a lungo termine, con l’insorgere di patologie cerebrali e di problemi vascolari in percentuali ancor più allarmanti. Eppure, su tutto questo impera l’assoluto silenzio. Non si studiano nemmeno, le conseguenze della provetta, impegnati come si è nel rispondere ai desideri pressanti delle coppie: «Come società ci troviamo innanzi a una scelta – continua l’articolo del British Medical Journal –. Possiamo continuare così, oppure intraprendere una nuova sfida e provare che gli interventi di fecondazione assistita che offriamo sono davvero appropriati ai casi e sicuri». Per farlo vi sono due strade: quella di articolare linee guida (per ora assenti nella maggior parte dei Paesi) sulla provetta, studiandone gli effetti a lungo termine con attenzione e informando le coppie. E poi quella di indagare la sterilità, che spesso può essere guarita se affrontata con percorsi diagnostici e terapeutici adeguati. Lo sa da tempo, in Italia, il direttore dell’Istituto Scientifico Internazionale (ISI) Paolo VI di ricerca sulla fertilità e l’infertilità umana dell’Università Cattolica, Riccardo Marana, che centinaia di coppie “sterili” accoglie e cura nel centro polispecialistico al Policlinico Gemelli di Roma. Nella struttura si parte dal presupposto che prima della provetta bisogna tentare tutte le altre strade per sconfiggere la sterilità (che poi è anche il più disatteso fra i principi della Legge 40). Si fanno analisi puntuali e complete, si utilizza la chirurgia mini-invasiva per trattare tube, infiammazioni, endometriosi. E grazie a questo approccio, su 5mila coppie seguite finora, 700 hanno ottenuto una gravidanza naturalmente: «Serve pazienza – spiega Marana –, tempo. Serve che la terapia rispetti la natura. E serve che la sterilità sia curata, non bypassata, come fa la fecondazione assistita». La beffa di una scorciatoia costosa, stressante e spesso inutile, che per il 14% delle coppie viene seguita da una gravidanza naturale.
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