domenica 13 settembre 2020
La “Commedia” è il grande poema del ritorno dell’umanità, nel senso lasciato da Ungaretti: non è un ritorno al prima, ma a un sempre accrescitivo e insaziabile «che, saziando di sé, di sé asseta»
Una miniatura dal codice Holkham misc 48 (XIV secolo)

Una miniatura dal codice Holkham misc 48 (XIV secolo) - -

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Ravenna domenica ha ricordato solennemente la morte di Dante Alighieri, avvenuta nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321; la prolusione, dal titolo “Umbriferi Prefazi”, è stata tenuta dael presidente del Comitato dantesco nazionale Carlo Ossola: ne proponiamo qui una parte.

L’inizio delle celebrazioni che commemorano in Ravenna e nel mondo la morte di Dante Alighieri (1321), è gravido di responsabilità sulle quali richiamò l’attenzione Carlo Dionisotti, nel celebre saggio Varia fortuna di Dante, pubblicato nel 1966 a bilancio del precedente centenario. Tali responsabilità sono accresciute dalla coscienza storica dell’eredità che i secoli ci hanno lasciato intorno all’opera di Dante. «Umbriferi prefazi» è citazione da Paradiso, XXX, 76-81: «Anche aggiunse [Beatrice]: “Il fiume e li topazi / Ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe / Son di lor vero umbriferi prefazi. / Non che da sé sian queste cose acerbe; / che non hai viste ancor tanto superbe” ». La Commedia è un lungo praefatio, come bene ci tramanda la tradizione esegetica: Umbriferi «adombrano quel ch’e’ son veramente e che poi apparranno » [ Tommaseo]; e prefazi: « Quia veritas, id est arcanum summi Dei, qui fecit omnia, ingenio ac propriis non potest sensibus comprehendi » (Lattanzio, Divinarum institutionum liber I; PL, VI 111A). Tutta l’ascensione di Dante è segnata da questo crescere della visione e, soprattutto, crescere nella visione: pochi versi dopo egli dirà (vv. 87-88): «chinandomi a l’onda / che si deriva perché vi s’immegli », versi magnificamente chiosati da Cristoforo Landino: «Quando la punta delle ciglia bevve di questa acqua, el fiume che prima mi parea lungo mi parve tondo. Per questo dimostra che gl’uomini che non sono ancora ripieni di grazia illuminante veggono solamente che queste cose procedono et dirivono da Dio, ma non s’accorgono che ritornino a Dio».

Non si tratta dunque di «meglio vedere» (ché anzi per voler troppo vedere, si rimane abbagliati: «Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta / di vedere eclissar lo sole un poco, / che, per veder, non vedente diventa», Paradiso, XXV, 118-120) ma di divenire meglio disposti ad essere assorbiti entro la luce, non per emanazione dall’unità (come queste «cose procedano e dirivino da Dio») ma per ritorno ad essa: «Ma non s’accorgono che ritornino a Dio». Molto di più che i poemi dedicati agli eroi classici, questo – della Commedia – è il più grande nostos, poema del ritorno dell’umanità, da leggersi tuttavia nel senso che ci ha lasciato Ungaretti: «D’Itaca varco le fuggenti mura», perché esso non è un ritorno al prima, ma a un sempre accrescitivo e insaziabile «che, saziando di sé, di sé asseta» ( Paradiso, XXXI, 129), a un “oltre” che solo la Risurrezione finale dei corpi completerà nella plenitudine della gloria, «la revestita voce allelujando» ( Paradiso, XXX, 15), non solo – anagogicamente – per ogni singola anima, ma per tutte insieme, nel riscatto finale del creato intero: anche i beati non vivono solo nella loro luce (quasi fossero in un sogno neoplatonico), ma desiderano ritrovare il perduto corpo terreno: «Che ben mostrar disio d’i corpi morti: / forse non pur per lor, ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme» ( Paradiso, XIV, 63-66). In tal senso, di ulteriorità disvelatrice, mi sembra debba leggersi il celebre passo di Paradiso, XXX, 31-36: «Più dietro a sua bellezza [di Beatrice], poetando, / come a l’ultimo suo ciascuno artista. / Cotal qual io la lascio a maggior bando / Che quel de la mia tuba, che deduce / L’ardua sua materia terminando».

La lascio a maggior bando: trattandosi di Beatrice, non possiamo leggere questo verso come una umile mitigazione, quale – rispetto alla materia celeste – Dante propone nel Canto I: «Forse di retro a me con miglior voci / si pregherà perché Cirra risponda» ( Paradiso, vv. 35-36); si tratta piuttosto di un richiamo al «novissimo bando » di Purgatorio, XXX, 13: il giorno del Giudizio e della Risurrezione dei corpi beati rivelerà di Beatrice la compiuta bellezza. La vita dei beati, e di Dante, e di ciascuno di noi, «s’infutura» ( Paradiso, XVII, 98), perché è destinata anagogicamente ad «insemprarsi » «colà dove gioir s’insempra» ( Paradiso, X, 148). La Commedia dunque – come vuole Mandel’štam – va letta “ in futurum”, in un avvenire che ricapitola – fino alla Gerusalemme celeste – la lunga traversata terrena, sorretta dalla storia di un’elezione narrata dalle Scritture. Mai si è data più forte unità di Antico e Nuovo Testamento che nella Commedia ( sempre in parallelo, dalla processione nel Paradiso terrestre al Paradiso, ai seggi eletti nella rosa dei beati), e – non meno – «anche la verità che quinci piove / per Moisé, per profeti, e per salmi / per l’Evangelio e per voi che scriveste / poi che l’ardente Spirto vi fé almi» ( Paradiso, XXIV, 136-138). Un’esegesi in futurum richiede dunque – molto più del Canzoniere del Petrarca, direbbe Ungaretti – «una grande acuità, una grande fissità dello sguardo mentale» ( Il poeta dell’oblio), perché Dante chiede di guardare, di leggere, di interpretare, nel poema e dal poema, affinché lo sguardo «vi s’immegli».

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