mercoledì 21 giugno 2017
Il genio di Philadelphia alla soglia degli 80 anni: «A 17 anni suonavo con Coltrane. Dio ci voleva insieme, avevamo una missione da compiere mediante la nostra musica»
Il pianista McCoy Tyner: «La musica? Una benedizione divina»
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Sono pochissimi gli artisti che, come il pianista McCoy Tyner (in Italia sarà in concerto il 5 luglio a Empoli e il 6 a Milano), possono dire di aver vissuto e segnato l’intera storia del jazz moderno. Il virtuoso di Philadelphia, classe 1938, è cresciuto con Bud Powell, ha affiancato Sonny Rollins, Milt Jackson, Wayne Shorter, ha costruito un suo pianismo capace sia di lirica connessione con la tradizione degli standard sia di aprire nuove frontiere a un hard bop via via mescolato con sperimentazione, ritorno agli archi, richiami alla musica popolare, attenzione alle radici africane del jazz: in un contesto sempre “spiritually directed”, ovvero con fortissimi orientamento e significato spirituali. Senza dimenticare poi che Tyner esordì adolescente nello storico quartetto di John Coltrane, con Elvin Jones e Jimmy Garrison: e che quindi di Trane, scomparso cinquant’anni fa, ha vissuto sia i dischi che lo consacrarono, come My favorite thingsdel 1961, sia quelli che squassarono il jazz alle fondamenta come A love supreme del ’64 o Ascension del ’65. Il tutto fra ottanta album a proprio nome (da ricordare almeno The real McCoy, Sahara, Expansions e il recente Guitars con Scofield e Frisell), quattro grammy vinti, una personale etichetta discografica e migliaia di concerti nel globo. A Milano, all’Orto botanico di città studi McCoy Tyner proporrà Echoes with a friend, rimando al suo disco - proprio per Coltrane - Echoes of a friend del ’72: sarà un viaggio nella sua storia fra soli e vari trii, con Geri Allen e Craig Taborn al piano, Cannon basso e Mela batteria.

Maestro, quali sono stati i suoi miti del pianoforte?
«Molti mi hanno influenzato, ma gli artisti chiave sono stati Art Tatum, Bud Powell e Duke Ellington ».

Cosa ha dato lei di nuovo al pianismo jazz?
«Ecco, una domanda interessante. Non guardo mai alla mia arte come possono guardarvi altri, mi sento solo uno che è se stesso e si esprime dentro il linguaggio del jazz. Certo spero, di essere stato capace di creare qualcosa di nuovo… Senz’altro ci sono nuove frontiere: negli anni Sessanta o Settanta ci esprimevamo come sapevamo, ora sento nuovi sapori».

Chi sono stati i più grandi o innovativi di sempre?
«Domanda difficile. Per essere sintetico potrei parlare di Coltrane, unico e innovativo davvero. Ma ci fu pure chi influenzò lui… Charlie Parker, Coleman Hawkins, e poi Miles Davis, Ellington, Armstrong. Tanti hanno giocato ruoli decisivi nel jazz».

Quali jazzisti di colore sono stati fondamentali, a suo avviso, nella lotta contro il razzismo?
«Credo che ognuno abbia contribuito un poco a modo suo: Armstrong ed Ellington hanno aperto porte alle generazioni future col loro talento, quelli della mia età hanno cercato di esprimere in musica determinati concetti. La situazione ora è migliore, ma il cammino perché divenga accettabile in toto resta lungo».

Cosa ha significato suonare con Coltrane a 17 anni?
«John era uomo di grande spiritualità che continuava a perfezionare la tecnica. Vedere la sua dedizione è stato un grande insegnamento, per me. E stare sul palco con lui era essere a scuola a fianco del maestro, si imparava sempre qualcosa di diverso».

Qual è l'eredità di Coltrane, cinquant'anni dopo la sua morte?
«A volte non posso credere che siano passati tanti anni: sento il suo spirito tra noi ogni giorno, lo sento nella mia musica. È il suo spirito, la sua eredità: nonché l’eredità della musica nera. La sua influenza si vede in musicisti della mia età e in giovani, non morirà mai, ci sopravvivrà per anni».

Come lavorava il suo storico, magnifico, quartetto?
«Penso che Dio volesse che stessimo insieme, ci sentivamo fratelli con una missione da compiere. La nostra connessione spirituale era inspiegabile: come parti di un solo motore, andavamo all’unisono».

Nel 2007 ha realizzato l’album Quartet: cosa deve proporre un quartetto jazz oggi per Mc-Coy Tyner?
«Non certo catturare quanto mi riusciva con Coltrane, mai ho voluto ripetere quell’esperienza. Cerco di trovare un suono di oggi, senza piani né ideologie».

Che ricordo ha di A love supreme?.
«Ho sempre creduto in Coltrane e in ciò che faceva: si poteva iniziare un disco su una struttura e poi esso iniziava a vivere di vita propria, eravamo in un momento molto spirituale. Certo quando ascoltai quello che John stava creando capii che benedizione fosse, lavorare con un artista tanto straordinario».

Lei lo suona ancora, Coltrane: i brani da ricordare?
«Altra domanda impossibile. Naima, Impressions, Crescent… Ma penso che sia fondamentale guardare l’insieme, capendo semmai come ogni brano sapesse esistere di per sé dentro l’intero dell’opera».

Diventato solista il suo pensiero musicale è mutato?
«Naturale: quando cresci porti ciò che hai vissuto nella contemporaneità. Io ho puntato sul concetto modale e i ritmi africani, ma in ogni lavoro cercavo cose diverse. Con la Impulse lavoravo su standard e poche cose mie, con la Blue Note ho cercato di trovare un mio suono, con la Milestone ho avuto la libertà di esplorare quanto mi colpiva al momento».

Quali sono i dischi chiave di McCoy Tyner?
«Oh, non ho un album favorito, ma certe canzoni sì: Fly with the wind del ’76 amo ancora suonarla».

Il jazz è una musica spirituale, per lei?
«Lo è sempre stato, unisce persone e generazioni, sa rimanere puro attraverso il tempo. Noi musicisti siamo benedetti dal cielo a poter esprimere in musica la speranza di migliorare le cose: perché la musica è potente, e se la gente la ascolta potrebbe anche cambiare certe visioni dell’uomo e del mondo».

Che concerto sarà Echoes with a friend?
«Spero di essere all’altezza delle aspettative: farò la musica che sentirò adatta al momento. Con me ci sono due pianisti più giovani ma di esperienza, amo confrontarmi con concetti inediti e contemporanei. Aiuta a crescere al piano, ma anche nell’anima».

Cosa significa per McCoy Tyner la parola “jazz”?
«Un genere di musica nato da molti generi di musica e da cent’anni a oggi cresciuto moltissimo: sono sicuro che crescerà e si espanderà ancora a lungo».

Quali dischi di jazz farebbe studiare nelle scuole? «Penso che da ogni bel disco si possa apprendere, e che ogni grande abbia cose da insegnare. Direi di studiare e provare a capire più dischi che si può».

La musica l’ha aiutata, a vivere?
«Assolutamente, mi ha fatto crescere come uomo oltre che come artista: e mi auguro possa sempre toccare la vita degli altri come ha fatto con la mia».

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