sabato 31 luglio 2021
Le atlete islamiche in pista nei 100 metri: diverse, lontane dal podio ma sempre meno distanti
Houleleye Ba (Mauritania) in pista nei preliminari dei 100 metri donne

Houleleye Ba (Mauritania) in pista nei preliminari dei 100 metri donne - Reuters

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Houleleye è lì, un po’ incerta. Ai blocchi di partenza dei primi 100 metri olimpici di Tokyo 2020 le altre esibiscono gambe nude, sguardi aggressivi, braccia lucide. Lei è completamente verde e nera, coperta nel corpo e sulla testa, diversa. Ore 9 del mattino, stadio Olimpico. Bisogna esserci quando i Giochi si spostano per far passare quelli che non arriveranno mai sul podio, ma ci provano comunque. Dieci secondi di gloria, per qualcuno quindici perché loro ci mettono di più. È questo lo spazio di una vita, il senso di una corsa infinita.

Houleleye Ba ha 29 anni, la sua bandiera è quella della Mauritania. Alle Olimpiadi da quel posto sono riusciti a venirci solo in due, lei e un maschio che farà gli 800. Finiranno presto, ma potranno raccontare di esserci stati in questi Giochi alieni. Fa poco sport il suo Paese, la Mauritania ha una nazionale solo nel calcio, nel rugby e nel basket, che però all’estero non giocano da mai. Lei invece è qui, e non importa se arriva ultima, fasciata, sgraziata nei passi che mette insieme verso il traguardo. A guardarla ti viene in mente che, piaccia o meno, è il simbolo del futuro, della donna islamica che si mette a correre. Ma anche del passato, che ti permette di arrivarci ai Giochi, ma vietandoti la vera libertà. Molto è cambiato però, lo sport aiuta a mischiare i colori, il traguardo è vicino.

Non era una batteria importante la sua: la terza dei 100 metri donne. Quella delle meno attrezzate, diciamo così, dove su 27 al via al turno successivo ne passano solo sei. Quelle con addosso lo hijab d’ordinanza, sia pure in versioni diverse, sono sette in tutto, più del doppio rispetto a Rio 2016, e fanno anche molto meglio. Nella prima batteria Bashair Al Manwari (Qatar) corre in 13’’12, suo record personale, Kima Yousofi (Afghanistan) ferma il tempo a 13’’29 che nel suo Paese è il primato nazionale. Crescono, si migliorano, sono ancora distanti ma sempre meno, qualcuna ha osato persino pitturarsi le unghie. Anche Nabila Alias Azreen (Malesia) corre come non aveva mai fatto prima, mentre Yasmeeen Aldabbagh (Arabia Saudita) arriva ultima con 13’’34 nella stessa batteria in cui l’iraniana Fasihi Farzaneh ferma il cronometro a 11’’76 e si qualifica per il turno successivo. Lo fanno solo in due, per le altre Tokyo è già finita.

Allora bisogna scavare nel computer dei Giochi per sapere. Aprire la sua scheda personale, riannodare il filo che ti porta a un volto, una storia. Houleleye ha corso in 15’’26 la sua Olimpiade: un tempo infinito, che da noi si realizza da bambini. Ma quella corsa impacciata e splendida ha un senso enorme. Peccato solo che chi gareggiava con lei, non l’ha capito. Tagliato il traguardo, nessuna delle sue avversarie si è fermata ad abbracciarla. Nessuna saprà che nella vita insegna francese in una scuola elementare, che ha iniziato a correre solo per gioco. E che ora invece anche se non va veloce, è la ragione della sua vita. E nemmeno che i suoi idoli sono tre: Usain Bolt, Mo Farah e suo papà. Che il suo motto è: sempre avanti.

Lo scopriamo in fretta, senza poterle parlare per più di un minuto nel ventre dello stadio, perché queste sono le regole a- desso, e non sono ammesse eccezioni nemmeno per fare un po’ di luce sulle esistenze incappucciate. Le Olimpiadi le colorano per un attimo: passi corti, cento metri di strada appena, ma è già qualcosa.

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