martedì 8 novembre 2016
L’ultima opera dell’intellettuale francese critica la teoria dell’instabilità, che con repentini cambiamenti sarebbe capace di innovare la società e l’economia
Per Bernard Stiegler la «distruzione creatrice» è un grande inganno
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«È impossibile vivere in società senza protensioni collettive positive, e queste procedono in maniera intergenerazionale e transgenerazionale» scrive Bernard Stiegler. Insomma, i progetti condivisi che rendono solidale una società crescono grazie al legame che unisce le varie generazioni e che oggi si sta disintegrando. Ecco il grande cruccio del filosofo francese e soprattutto il problema da affrontare.

Purtroppo Stiegler non incontra grande fortuna nel Belpaese. Sarà per la mole dei suoi lavori, voluminosi e per di più divisi in più tomi. Sarà per il suo lessico non sempre fruibilissimo. Oppure perché mai ha ceduto alle lusinghe della moda pop tanto in voga. È un peccato però che a prevalere sia la pigrizia, perché Stiegler è uno dei pochi pensatori, insieme a Peter Sloterdijk, ad aver osato elaborare una strategia di pensiero all’altezza delle nuove tecnologie. E senza scadere nell’entusiasmo e neppure nel greve oscurantismo.

Benché in traduzione italiana si trovi qualche suo libro, non sono disponibili le sue fatiche più impegnative e più interessanti. A vellicare la curiosità degli appassionati di filosofia arriva però ora l’ultimo numero della rivista «Aut-Aut» (Il Saggiatore, pp. 204, euro 19). Interamente dedicato al filosofo francese e curato da Paolo Vignola e Sara Baranzoni, il periodico diretto da Pier Aldo Rovatti introduce il lettore italiano alle sfide del XXI secolo passando attraverso gli strumenti teorici forgiati da Bernard Stiegler.
Uomo e tecnica sono saldamente sposati fin dai primi passi dell’ominazione. Eccola la premessa filosofica del pensatore d’Oltralpe. Il primo non ci sarebbe senza la seconda. E il mondo come lo vediamo adesso e le migliaia di anni che lo precedono non sarebbero stati gli stessi senza questa comunione.


Eppure con l’irrompere delle nuove tecnologie la situazione cambia. Esse non arrivano invano. Impongono un modello di convivenza disruptive, instabile. Il termine, preso in prestito dalla fisica nucleare, in particolare dagli esperimenti in ambienti chiusi chiamati in maniera suggestiva «tokamak», indica «l’improvviso irrompere di instabilità». Nel gergo dell’attuale era digitale, la parola significa la capacità propria di un’innovazione tecnologica di destabilizzare interi settori dell’economia e della società. Oggi, per esempio, si parla di disruptive economy, di «economia distruttrice».

Esasperando le tesi della distruzione creatrice avanzata agli inizi del secolo scorso dall’economista austriaco Joseph Schumpeter, si crede di ottenere un’elevata produttività attraverso cambiamenti repentini e improvvisi capaci di rendere desueti utensili e sistemi in uso. Così si riattiverebbe la domanda e i mercati ricomincerebbero a correre. Peccato, ora che la disruptive economy è diventata consuetudine, che poco si considerino le ricadute antropologiche e sociali di questa strategia.


Per Bernard Stiegler solo la filosofia, se fatta vibrare opportunamente, riesce a formulare diagnosi e prognosi sull’instabilità in corso. Avvalendosi di Edmund Husserl, Jacques Derrida e del purtroppo quasi sconosciuto Gilbert Simondon, il pensatore francese mostra come l’uso immeditato delle tecnologie porti a ciò che chiama «disindividuazione» ovvero disintegrazione dei singoli e dei gruppi. La successione rapida e incessante di stimoli impedisce agli uomini di elaborare quelle che definisce «protensioni», vale a dire speranze, progetti, ambizioni. E questo perché parte delle «ritenzioni», diciamo della memoria, non trovano il tempo di formarsi. Senza di esse viene meno «l’orizzonte di attesa», cioè quel trampolino verso il futuro che anima la vita dell’uomo.

E questo per l’implosione del tempo necessario al formarsi di connessioni tra le diverse generazioni. La velocità delle informazioni incatena gli uomini alla loro individualità facendo evaporare ogni forma di continuità con predecessori e contemporanei. Ma senza continuità non c’è vita. Ogni cosa si acciambella su se stessa e non trova il respiro della storia. Ecco che allora prevale l’estenuazione. Il non senso di qualunque azione diventa dominante. «Come non diventare folli?» si chiede Stiegler nel sottotitolo del suo ultimo libro pubblicato in Francia Dans la disruption (Les Liens qui Libèrent, pp. 470, euro 24).

L’eclissi dell’avvenire non è senza conseguenze. Disintegra l’uomo. Estinguendosi ogni forma di progettualità, gli uomini si ritrovano rinserrati in un eterno presente. «La distruzione del narcisismo primordiale – riconosce Stiegler – conduce alla follia, vale a dire alla perdita della ragione e più precisamente della ragione di vivere da cui proviene il sentimento di esistere».

Senza lo slancio verso il futuro ispirato dalla cura di se stessi il mondo sembra fermarsi. Peggio. Pare che si muova per puri automatismi a prescindere dall’uomo, al punto da generare quella che Stiegler definisce «epoca senza epoca». Cioè la nostra. Per uscirne non si deve rifiutare asceticamente le tecnologie. Ma farsene carico come fossero un farmaco, portentoso e letale al tempo stesso.

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