lunedì 4 maggio 2020
Il re di Rohan è chiuso nella disperazione e nella sfiducia a causa di lutti e cattivi consiglieri. Gandalf lo libera conducendolo all'aperto di fronte al paesaggio. Inizia così la sua "fase 2"
Uscire e tornare a vivere: il nuovo sguardo di re Théoden

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Nella prima parte di Le due Torri, così ricca di eventi e nuovi personaggi, torna con una certa insistenza il tema dello sguardo. Ci sono sguardi carichi di meraviglia, occhi che si riaprono, occhi che terrorizzano. C’è lo sguardo più inquietante e memorabile, quello di Sauron: un solo occhio senza palpebra che scruta incessantemente da una torre perché nulla sfugga al suo controllo. “Scuri e gravi” sono invece gli occhi di Saruman, che ha voltato le spalle al Bene, ma mira a prendersi gioco persino di Sauron e a impossessarsi dell’Anello. “Ci sono occhi! Occhi che guardano dall’ombra dei rami! Non ho mai visto occhi simili” dice Legolas: sono gli occhi di strane creature, degli Ent e degli Ucorni, gli occhi della natura ferita che si risveglia, decisa a vendicarsi della violenza subita proprio da parte di Saruman (“egli ha una mente di metallo e ingranaggi” dirà Barbalbero). E poi occhi che si spalancano per lo stupore, quelli di Aragorn che non si capacita di rivedere Gandalf e, credendolo morto, stenta a riconoscerlo quando gli appare come Gandalf il Bianco: “Quale velo copriva i miei occhi? Gandalf!”. C’è poi lo sguardo “serio e pensoso” della bella e forte Éowyn, che sa illuminarsi e sciogliersi in un sorriso quando i suoi occhi si posano su Aragorn.

In questo momento particolare, però, uno sguardo può parlarci più degli altri. Probabilmente le prossime settimane richiederanno ancora la pazienza di Giobbe. La prolungata navigazione a vista e l’assenza di una prospettiva iniziano a risultare oltremodo pesanti, col rischio di far calare una coltre di torpore sulla speranza. Il dibattito costruttivo lascia il posto a un chiacchiericcio estenuante, a un fastidioso, e spesso dannoso, rumore di fondo tenuto vivo da una schiera di tuttologi improvvisati (“I saggi parlano solo di ciò che conoscono” avrebbe da osservare Gandalf). Sempre più divisi nel partito dei delusi e quello dei prudenti, ci unisce ancora il vagheggiamento del momento in cui si potrà uscire senza eccessive restrizioni. Non si tratta solo di sfinimento, ma di un desiderio radicato e di una consapevolezza concreta: la vera ripresa non potrà esserci senza un ritorno a relazioni reali, non mediate da uno schermo.

Ecco perché lo sguardo per noi più significativo è quello di Théoden, che dopo essere stato a lungo nelle tenebre ritrova la speranza e torna a vedere la luce. Théoden è il re della fiera gente di Rohan, un popolo di guerrieri e domatori di cavalli. È ormai avanti negli anni quando alla sua corte arrivano Gandalf e compagni, e ha da poco perso l’unico figlio ed erede, Théodred, ucciso dagli orchi di Saruman. Il consigliere Grima Vermilinguo, segretamente in combutta con Saruman, ha avvelenato la mente del re, con lo scopo di indebolire la resistenza di Rohan e facilitare l’avanzata delle armate dello stregone. Di Grima Gandalf dirà: “Non è sempre stato malvagio”, ma “il suo cuore si è raffreddato”. E ancora: “Era astuto: attenuava la diffidenza degli uomini, o faceva leva sulle loro paure, a seconda delle circostanze”.

Théoden è ormai totalmente in balia del consigliere e incapace di reagire, da troppo rinchiuso nel suo palazzo – il Palazzo d’Oro di Meduseld, in cui ora domina un’atmosfera cupa – stancamente ricurvo sul trono. “Sono giorni bui” spiega una delle guardie. All’arrivo dei nostri, Vermilinguo tenta di instillare ancora il veleno del sospetto e dell’odio, di persuadere il re a non fidarsi di Gandalf, salutato come “araldo del dolore”, ma esce sconfitto dal confronto con lo stregone, che lo liquida con severità prima di rivelarsi in tutta la sua potenza. Egli aiuterà il re a uscire da questa trama cupa indicandogli col bastone la luce fuori da una delle finestre della sala. Questo è l’aiuto che è venuto a portare quando il dolore del re è ancora vivo e il popolo minacciato, e gli unici doni graditi sono “cavalli, spade e lance”: indicare un tratto di cielo splendente dicendo “Non tutto è oscuro. Fatti coraggio, Signore del Mark, perché non troverai aiuto migliore. Non ho consigli per chi dispera. Eppure a te potrei dare consiglio e rivolgere parole. Le ascolterai? Non sono per le orecchie di tutti. Ti chiedo di uscir all’aperto, davanti alle tue porte, e guardare fuori. Troppo a lungo sei stato seduto nell’ombra e hai prestato fede a racconti contorti e a suggerimenti disonesti”.

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Il risveglio di Théoden non ha niente di eclatante (dimenticate pure senza rimpianti la pessima trasposizione cinematografica di questa scena!), si traduce in un gesto estremamente semplice ma denso di significato: lentamente si alza dal trono. Rianimato dalla speranza, il vecchio re esce dal suo dolore, si allontana dalla voce malevola di Grima e, seguendo Gandalf, attraversa la sala fino alle porte: “Il tempo della paura è passato” dice. “Aprite! Il Signore del Mark viene avanti!” grida Gandalf, che aggiunge poco dopo: “E ora, signore, guarda la tua terra! Respira di nuovo l’aria libera”.

Lo sguardo del re torna a posarsi su un paesaggio familiare ma che aveva quasi dimenticato: i verdi campi di Rohan, sormontati da un cielo ancora in parte plumbeo e piovoso, ma in cui irrompono già i primi raggi di sole mentre il vento allontana le nubi. “Non è così oscuro qui” dice Théoden. “No, e neppure l’età grava così pesantemente sulle tue spalle, come qualcuno voleva farti credere” dice Gandalf, rendendo esplicita la correlazione fra quel paesaggio che si libera dell’oscurità e il re che allontanando i cattivi pensieri si apre alla speranza e ritrova le energie. Ancora su invito di Gandalf, Théoden lascia finalmente il bastone: “ora si ergeva alto e diritto, e i suoi occhi erano azzurri mentre guardava il cielo che si apriva”. Ancora una sottolineatura della corrispondenza fra re e paesaggio, fra l’azzurro dello sguardo e quello del cielo.

I pochi passi di Théoden hanno un valore allo stesso tempo simbolico e paradossale: uscire dalla sala del trono gli consente di ritornare, o meglio rientrare, definitivamente in sé, allontanando le tenebre dal cuore e dagli occhi e soprattutto riscoprendo il legame profondo fra sé e quella terra, che di lui ha ancora bisogno. “Cupi sono stati i miei sogni di recente, ma mi sento come uno che si è risvegliato”. Egli avverte che la fine dei suoi giorni è prossima, ma può ancora fare del suo meglio per tornare a prendersi cura del suo popolo in pericolo. “Le tue dita ricorderebbero la forza di un tempo, se stringessero di nuovo l’elsa di una spada” gli suggerirà Gandalf, richiamandolo alla sua missione: guidare e difendere la sua gente.

Lo sguardo fuori dalla sala ha restituito Théoden a una vita di relazione. Non a caso, una delle prime decisioni che prende è quella di riabilitare completamente il nipote Éomer, che egli, sotto la rovinosa influenza di Vermilinguo, aveva mal giudicato. “Dì anche – dice Gandalf – che per degli occhi storti la verità può assumere un aspetto tetro”. Lo stesso aggettivo (crooked: “storto”, ma anche “corrotto”) viene usato da Gandalf per descrivere tanto gli occhi di Théoden quanto le velenose parole di Vermilinguo, vera causa di questa “stortura” dello sguardo. “Davvero i miei occhi erano quasi accecati. Ti devo molto, ospite mio”. È tempo di agire, di impugnare le armi. Prima però è giusto dare ristoro agli ospiti e invitarli a pranzare, per poi farli equipaggiare con armi custodite nel suo tesoro: un buon re si valuta anche dalla capacità di donare con generosità.

Tutto nasce da uno sguardo purificato, ma Théoden non sa darsi la salvezza da solo, è un altro a cacciare le tenebre dai suoi occhi. Un invito alla speranza lo rende capace a sua volta di dare speranza ai sudditi e all’esercito. Dalla contemplazione di quel paesaggio che gli appartiene e cui lui appartiene, può iniziare la “fase due” di Théoden. Nonostrante si ritrovi in un mondo stravolto (“il mondo cambia, e tutto ciò che un tempo era forte ora si rivela incerto” osserva), egli tornerà a cingere ancora la spada Herugrim e guiderà la cavalleria nella vittoriosa battaglia del Fosso di Helm. Cadrà infine da eroe ai Campi del Pelennor, non senza aver incitato i suoi un’ultima volta, gridando “con un’alta voce, più distinta di qualsiasi voce che si sia mai sentita emettere da uomo mortale: "Levatevi, levatevi, Cavalieri di Théoden! Aspre imprese vi attendono: fuoco e massacro! la lancia sarà scossa, lo scudo frantumato, un giorno di spada, un giorno di sangue, prima che il sole sorga! Cavalcate, cavalcate ora! Cavalcate verso Gondor!”.

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