sabato 1 febbraio 2020
Raccolti in volume i saggi scritti dallo studioso dei miti assieme a Hertha von Dechend, dove ribaltava i pregiudizi storicistici che liquidavano l’eredità dei “primitivi” come fantasie patologiche
La “Mappa Dunhuang” con le stelle della regione polare redatta al tempo dell'imperatore Zhgonzong

La “Mappa Dunhuang” con le stelle della regione polare redatta al tempo dell'imperatore Zhgonzong - .

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«Se gli antichi parlano a volte in modi strani, non dovremmo concludere che i loro pensieri siano dopotutto così strani. Il fatto centrale e semplice che abbiamo dimenticato è che gli antichi, come gli uomini del Rinascimento, pensavano in termini di livelli di verità diversi ma convergenti e costantemente regolabili. Questo è il presupposto di un cosmo, l’idea che si sarebbe dissolta con Descartes. Keplero era ancora completamente antico. Persino Galileo incontrò il fallimento cercando di inserire nel suo nuovo metodo l’idea dei cerchi perfetti e di inerzia circolare che riteneva indispensabile per salvaguardare l’ordine del cosmo. Dimorava in lui un irriducibile Pitagorico» scrive Giorgio de Santillana in Sulle fonti dimenticate della storia della scienza. Si tratta di uno dei tre contributi, insieme a Sirio, centro permanente dell’universo arcaico e Il concetto di simmetria nelle culture arcaiche, alcuni firmati con e dalla sua collaboratrice Hertha von Dechend, ora raccolti dall’editore Adelphi in Sirio. Tre seminari sulla cosmologia arcaica (pagine 172, euro 13,00) e curati da Svevo D’Onofrio e Mauro Sellitto. A lui si deve anche la postfazione che contribuisce a lumeggiare sul lavoro spesso trascurato dei due studiosi, autori dell’immenso viaggio alla scoperta del pensiero arcaico Il mulino di Amleto e di cui i saggi adesso pubblicati permettono di visitare il laboratorio da dove è germogliato.

Giorgio de Santillana

Giorgio de Santillana - .

Hertha von Dechend

Hertha von Dechend - .

Giorgio de Santillana, nato a Roma allo scoccare del secolo trascorso, studia fisica all’università della città natale. Dopo alcuni anni di approfondimento filosofico a Parigi, a partire dal 1929 s’adopera a promuovere il progetto del matematico Federigo Enriques di istituire all’Università di Roma una scuola di Storia della scienza. Poco prima delle leggi razziali, nel 1936, Santillana, di lontane origini sefardite, si trasferisce negli Stati Uniti. Dopo aver lavorato alla New School for Social Research di New York e a Harvard, nel 1941 raggiunge il Massachusetts Institute of Technology, il celebre Mit di Boston. Lì ha modo di frequentare Norbert Wiener, il padre della cibernetica, che gli chiede spesso di leggergli i tarocchi. Il clima al Mit è spumeggiante e affiatato. Al gruppo si unisce presto Walter Pitts che con Warren McCulloch ha da poco pubblicato l’articolo fondatore della teoria delle reti neurali e ora studia greco antico e sanscrito, collabora con Santillana nella ritraduzione dei frammenti di Parmeni- de e nella risistemazione di testi pitagorici, oltre ad approfondire lo studio di Filolao, Descartes e Leibniz.

Non si può certo dire che la ricerca nell’America della metà del Novecento sia parcellizata. Vi domina invece uno spirito interdisciplinare, a cui contribuisce anche Giorgio de Santillana. La svolta, per lo studioso di origini italiane, arriva nel 1958 durante un congresso di storici della scienza a Francoforte. In quell’occasione incontra Hertha von Dechend, etnologa allieva di Leo Frobenius, che due anni dopo lo raggiunge al Mit dando inizio così al sodalizio da cui nascerà Il mulino d’Amleto. L’impresa a cui attendono Santillana e Dechend rompe radicalmente con ogni pregiudizio storicistico e ogni atteggiamento che interpreta gli antichi alla stregua di “selvaggi” o “primitivi”. «Il denigrare – polemizza lo storico della scienza – è antico quanto l’Illuminismo stesso».

Dalla loro fatica, che li porta a muoversi con disinvoltura tra le tradizioni arcaiche greche, babilonesi, cinesi, indiane, maya, polinesiane, emerge come gli antichi maneggiassero conoscenze astronomiche tutt’altro che superficiali e banali. Anzi. Il problema è che le esprimevano con un linguaggio a noi completamente incomprensibile anche a causa delle interpretazioni moderne della scienza formulate da quelli che Santillana chiama, riprendendo l’espressione del commediografo John Osborne, gli “Angry young men” della filologia. Questi intellettuali contestatori riducono i miti «ad allusioni politiche o a culti solari, culti terrestri, al grande inconscio e a varie forme di patologie sessuali».

Dagli “Angry young men” ogni mito è riportato all’incesto, al parricidio o alla libido e si vedono sostenuti in questa impresa dalla «filologia ipercritica» che tratta i testi degli antichi e i miti «come se fossero scritti per libera associazione di idee o ragioni fortuite – chiosa Giorgio de Santillana – provocando un fiorire di sciocchezze dall’aspetto persuasivo». Eppure negli antichi miti non s’adombravano stramberie né assemblaggi casuali di immagini. Quantunque non si avvalessero di un linguaggio matematico ma di un linguaggio intessuto di storie, gli antichi esprimevano conoscenze scientifiche con rigore e precisione tali da non invidiare quelle dei matematici moderni. Esprimono «una comunicazione autentica che non necessita di comprensione e si realizza esclusivamente attraverso la forma». Lo riconoscono già Ateneo e Luciano per cui la danza del celebre mimo dell’antica Roma, Memphis, in pochi passi era in grado di tradurre l’intera dottrina pitagorica. Il viaggio di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend nel cuore del pensiero arcaico aiuta a comprendere i passi di danza di Memphis alla stregua di un trattato di astronomia. Grazie a loro possiamo intendere l’umanità come l’esito di un lungo cammino di trasmissione, perdita a rinascita di conoscenze scientifiche non sempre sviluppate sotto l’occhiuta osservanza del metodo cartesiano.

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