lunedì 10 febbraio 2020
Un’Italietta sempre meno scanzonata per una settimana si aggrappa alle canzoncine e alla nostalgia canaglia. E alla fine a trionfare non è il merito, ma il vuoto di questi ultimi trent'anni
Amadeus e Fiorello sul palco dell'Ariston di Sanremo

Amadeus e Fiorello sul palco dell'Ariston di Sanremo - Ansa

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La musica è finita e gli amici di Amadeus se ne sono appena andati, con tanto di «record di ascolti del millennio» (60,6% all’ultima serata, boom!). «Un boato» direbbe la commessa romana di GameStop. Ma il 70° Festival di Sanremo conferma che basta salire sul palco dell’Ariston, accendere il microfono e presentare che, in automatico, si materializzano - per tutte le cinque sere - tra i 10-11 milioni di telespettatori. Unico accorgimento, portarsi dietro il “mattatore”, Fiorello, il “cantante nazionalpopolare”, Tiziano Ferro e l’icona da Oscar e nuovo esegeta del Cantico dei Cantici, Roberto Benigni.

Insomma, la ricetta è semplice e chiara: basta fare investire economicamente in una settimana quello che Mamma Rai usualmente non scuce - o non può spendere - in un intero anno. Poi che vinca il bravo e struggente Diodato o gli “statosocialari due” dei Pinguini, o il “renatino 2.0” Achille Lauro o qualsiasi bestiario della canzonetta italica, poco importa. La gara non conta lo sappiamo bene, ciò che conta è il dio auditel. E in questo caso, l’utile giustifica i prezzi, e questi statene certi, ricadono sulla comunità. Sul Paese reale. E non è retorica spicciola se vi diciamo che Sanremo da 70 anni in qua è lo specchio del Paese reale. A governare il palco, come nel Palazzo della politica, hanno pensato bene di mettere un dicastero: Amadeus stile Di Maio che doveva condurre dal palco, e al suo fianco un Fiorello che si è districato alla regia a mo’ di Conte o Casaleggio, un Rosario della sera un po’ premier per caso e un po’ guru che indica la via del successo, by usato sicuro.

Amadeus da solo ha fatto la solita parte del presentatore da discoring o festivalbar anni ’80. L’ex animatore Valtour invece ormai è fisso lì, al centro del villaggio televisivo, dove assieme a Crozza fa sempre gol, ma perché segna a porta vuota. Lo specchio del Paese Sanremo è un mondo d’arte varia dove da tempo immemorabile manca il ricambio generazionale. Ci si affida ai soliti noti, contratti Rai che sono come una condanna per il telespettatore un po’ al di sopra del medio. Fine pena mai. Sanremo si conferma anche un grande karaoke, dove come sottolinea il filosatirico Spinoza uno dei tanti blog mordaci via social, in gara i cantanti di Sanremo si dividono in due categorie: «Chi è?» e «Ancora campa?».

Terza conferma: questo Sanremo con trap rap o senza, non è un Paese per giovani. Al di là dei travestimenti pseudo francescani (Achille Lauro con pancera dottor Gibaud) e delle moine per assomigliare all’idolo del poster appeso nella cameretta del figlio (un po’ tutti, dilette vallette comprese), dietro la maschera il niente. Il nulla che avanza è lo specchio del Paese reale, legato mani e piedi ai don Matteo di destra e sinistra nella rilettura gaberiana. Un’Italietta sempre meno scanzonata che per una settimana si aggrappa alle canzoncine e alla nostalgia canaglia. Follia collettiva vuole poi che il popolo dei festivaldipendenti (come detto oltre 10 milioni di compatrioti davanti alla tv) ad ogni gesto, ad ogni look e ad ogni canzone o presunta tale si sforza di trovare una ragione, quando una ragione non c’è.

Sociologi, antropologi e naturalmente politici, cavalcano quest’onda (meglio lo Tsunami degli Eugenio in Via Di Gioia) che va, di un’Italia che invece è ferma, e non riesce più a Volare come quella dei tempi di Modugno. Non è pessimismo cari amici vicini e lontani, è la verità. E la verità ti fa male lo sai. Nessuno è più in grado di giudicare, perché il giudizio lo esprime una fantomatica giuria virtuale che non sa più distinguere il talento dall’invasore dell’etere, dal piacione che accontenta i più che non vuol dire che siano i migliori del Paese.

Lo specchio del Paese Sanremo riflette l’assenza di merito: non vince chi è più bravo o chi ha studiato per arrivare fin lì con il suo “talento” (accezione sempre più indefinita, come “fenomeno”), ma trionfa chi ha saputo mescolarsi alla massa popolare informe di questi ultimi trent’anni, vuoti, e tra tanti sudditi corrotti è riuscito a farsi eleggere re, per qualche notte. Le notti magiche sono finite da un pezzo, e la maggior parte di noi che aveva capito in che direzione andare ha smarrito il senso. Perché? Perché anche per fare buona musica e saperla ascoltare ancora su questo unico palco riconosciuto dai cantori e gli stonati del Paese reale ci vogliono i Dalla, i Battisti, i Rino Gaetano, gli Jannacci che ci ricorda «bisogna avere orecchio, e bisogna averne tanto, anzi parecchio». Sia lodato Diodato e senza Rancore. Anzi con Rancore, sul palco, nel Paese reale.

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