martedì 11 agosto 2020
L’autore inglese affronta una delle più aspre contraddizioni della società contemporanea: la morte in solitudine. Ne emerge un laico, forse inconsapevole riproporsi delle opere di misericordia
Eddie Marsan in una scena del film “Still Life” di Uberto Pasolini

Eddie Marsan in una scena del film “Still Life” di Uberto Pasolini - -

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«Il cristianesimo è in crisi quando i suoi stessi valori (uguaglianza, solidarietà, individualismo, l’idea di progresso) trionfano». Così, nell’ultimo numero di “Vita e Pensiero”, Jean-Claude Guillebaud, saggista di vaglia (i suoi libri furono citati con onore da Joseph Ratzinger). Questa constatazione viene in mente quando si termina Qualcosa per cui vivere, un godibilissimo romanzo, anche filosofico, che Einaudi (pagine 342, euro 18,50) manda in libreria per la firma di Richard Roper, esordiente nella scrittura nonostante un’attività da editor. Ma che c'entra il cristianesimo «secolarizzato» di Guillebaud e questo romanzo inglese contemporaneo? C'entra parecchio. Il protagonista, Andrew, è un anonimo quarantenne londinese, single, che lavora in un ufficio comunale addetto a organizzare i funerali delle persone che muoiono sole. Un fenomeno che, stando al romanzo, ma anche alla cronaca, segnala una deriva impressionante della società occidentale postmoderna (il libro di Mattia Ferraresi, Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali lo attesta con dovizia di particolari): «Negli ultimi cinque anni i funerali di povertà sono aumentati del dodici per cento. Sono sempre di più quelli che si spengono in totale solitudine» dice Andrew. La cronaca lo conferma: la recente istituzione di un Ministero della solitudine denota quanto nella società inglese il fenomeno sia grave.

Qui e là Roper segnala questo morbo così postmoderno: «Andrew – scrive, descrivendo una scena abituale in un pub inglese, ma forse vale anche per casa nostra: gente che guarda una partita di calcio alla tv – non aveva mai visto tante persone riunite in una stessa stanza, a tifare per la stessa squadra, eppure così sole». Solitudine che fa rima con alcol, che tra le righe di Roper scorre a fiumi, bagnando tale estraneità col senso di apparente libertà che una sbronza consegna. Per contro, Andrew sperimenta anche cosa vuol dire non vivere più in solitaria: «Il governo avrebbe dovuto fare una legge, pensò: a tutti, almeno una volta l’anno, spettava di diritto di potersi sedere su morbidi cuscini, pregustare una buona cenetta a base di ravioli e vino rosso, ascoltare le chiacchiere di persone care e sentire, anche solo per un breve lasso di tempo, di essere importanti per qualcuno».

Solitudine che non interessa solo i morti, ma anche i vivi: Andrew vive solo, con i soli suoi trenini a fargli da compagnia, un forum su internet con altri patiti delle rotaie a fargli da spalla dove ogni tanto confrontarsi. In particolare sulla nuova piega che la sua vita sta prendendo da quando in ufficio si è palesata Peggy: giovane mamma di due ragazzine, marito alcolista, in continuo equilibrio per cercare di salvare il salvabile dal suo matrimonio. Si intuisce che la vicenda avrà un finale «rosa».

Ma Andrew è doppiamente solo perché si è costruito una famiglia immaginaria, con Diane come moglie (il ricordo della ragazza con cui faceva coppia, morta improvvisamente) e due figli: un’immagine irreale che Andrew ha spacciato come vera al lavoro. Ma che pagina dopo pagina ha le ore contate, fino a un finale rappacificatorio, che non lo esime da un nuovo amore che fa rima con dolore: «Vedere Peggy corrergli incontro in quel modo, capire che la sua presenza era importante nella vita di un altro, pensare che forse dopo tutto egli non era solo un mucchietto di carbonio destinato a una bara disadorna gli diede una scarica di felicità pura, quasi dolorosa».

Si diceva di un cristianesimo «secolarizzato ». Che c'entra con il piacevole romanzo di Roper? Forse l’autore non ne avrà avuto intenzione, ma il finale della storia – la volontà di Andrew di dar fondo ai suoi risparmi per creare (su idea di Peggy) un qualcosa (un’associazione, un gruppo, …) per far sì che le persone siano meno sole in vita, e dar loro un dignitoso e più corale ultimo saluto – molto ha a che fare con l’antica opera di misericordia di «seppellire i morti». Secolarizzazione di un’antica pratica di pietà cristiana che forse gli stessi interessati non sanno di vivere. Però proprio la scena finale, un altro funerale di povertà celebrato da un giovane sacerdote, è il quadro perfetto di una certa novità: Peggy ha messo un annuncio su un social e trenta persone si sono trovate a dare l’estremo saluto a una sconosciuta: «Josephine era sola quando ha lasciato questo mondo – afferma il reverendo nell’ultima esequie – e anche quella di oggi rischiava di essere una funzione ben poco partecipata. Quindi è bellissimo vedere così tante persone che hanno deciso di prendersi il tempo di venire qui. Nessuno di noi può sapere quando sarà la fine del viaggio, né come sarà il viaggio stesso, ma se ognuno sapesse con certezza che negli ultimi istanti avrà accanto persone generose e buone come voi, sarebbe di sicuro un grande conforto».

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