mercoledì 12 ottobre 2016
Ferrario: «Così si può ripensare la Riforma»
COMMENTA E CONDIVIDI

L’ormai imminente viaggio apostolico di papa Francesco in Svezia (31 ottobre- 1° novembre) segna l’inizio di un percorso destinato a culminare tra un anno esatto. Il 31 ottobre del 2017 ricorrerà infatti il quinto centenario della Riforma protestante, il cui inizio viene fatto tradizionalmente coincidere con la pubblicazione delle 95 tesi contro la dottrina delle indulgenze elaborate nei mesi precedenti da Martin Lutero. Affisso al portale della cattedrale di Wittemberg, quel testo sta all’origine di un processo storico che ha portato alla costituzione di numerose Chiese riformate. In Svezia Francesco parteciperà a una commemorazione ecumenica di quell’evento nella cattedrale luterana di Lund, secondo lo spirito che lo stesso Papa ha sintetizzato nel giugno scorso dialogando con i giornalisti di ritorno dal viaggio in Armenia: «Io credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate: era un riformatore», ha dichiarato. Con l’intervista al pastore e teologo valdese Fulvio Ferrario inauguriamo una serie di interviste e interventi che intendono analizzare i temi di questo quinto centenario dal punto di vista storico e teologico, intrecciando tra loro voci del cattolicesimo e del protestantesimo.

Il pastore valdese Fulvio Ferrario ci tiene a precisarlo subito, come si fa con le questioni di metodo: «Se qualcosa abbiamo imparato dalla teologia del Novecento – dice – è che ogni pensiero teologico è contestuale. Valeva ai tempi di Martin Lutero come vale oggi». È in questa prospettiva che va letto il suo libro più recente, Il futuro della Riforma( Claudiana, pagine 200, euro 14,90), nel quale l’ormai imminente anniversario del 2017 viene situato e discusso nel contesto contemporaneo. «Nel contesto contemporaneo italiano ed europeo», precisa Ferrario, voce tra le più autorevoli della teologia protestante.

Quali sono gli elementi distintivi?

«In primo luogo la cosiddetta “areligiosità”, che costituisce l’evoluzione e insieme il superamento della secolarizzazione. La mentalità secolare, infatti, contrastava il cristianesimo, ma si muoveva in un orizzonte di senso nel quale era ancora riconoscibile l’impianto biblico, riassumibile in una visione della storia intesa come evoluzione da un passato peggiore del presente a un futuro addirittura migliore. L’uomo areligioso, invece, trova insensata la stessa nozione di senso. Si considera del tutto liberato da ogni ipoteca spirituale e di Dio, ormai, non percepisce più neppure l’ombra». Non è così per tutti, però. «Certo, e per questo va tenuto in conto un altro paradigma, che è quello della società postsecolare. Qui il dibattito è vastissimo, come sappiamo. Si va dalla “spiritualità senza Dio” alle nostalgie d’Oriente e al New Age, in una temperie alla quale non sono estranee, almeno in parte, le vicende dei movimenti nella Chiesa cattolica e l’ascesa delle congregazioni carismatico- evangelicali, che configurano sempre di più una quarta famiglia ecclesiale all’interno del cristianesimo».

In che senso?

«Nel senso di un nuovo tipo di Chiesa accanto alle tradizioni, molto più forti sul piano storico, rappresentate da cattolici, ortodossi e protestanti. I quali ultimi, nel quadro attuale, partono da una condizione indubbiamente svantaggiata».

Perché?

«Perché da un punto di vista areligioso un protestante è pur sempre troppo religioso, mentre in ambito post-secolare passa per essere troppo razionale, troppo illuminista».

Eppure la Riforma ha anche un’anima anticlericale e, per certi aspetti, razionalista.

«Non c’è solo questo, come non c’è solamente la polemica antipapista. Se torniamo a leggere la prima della famose 95 tesi di Wittemberg, troviamo un’insistenza sulla penitenza che oggi appare quanto di più antimoderno si possa immaginare. Il ricorso alle indulgenze viene contestato non per motivi morali, ma in quanto espressione di un cristianesimo che procede in via esclusivamente sacramentale, non tenendo nella dovuta considerazione l’obbedienza a Cristo nella vita quotidiana. Sono convinto che, in questa fase iniziale, Lutero non avesse messo in conto una rottura definitiva con Roma. Del resto, lo spirito della Riforma era nell’aria, se ne riconosce la presenza già nell’opera di Erasmo da Rotterdam, che fino al 1525 assume posizioni molto simili a quelle di Lutero. Poi, con la disputa su libero e servo arbitrio, l’opposizione tra i due diventa netta».

Che cosa significa parlare oggi di un “Cristo della Riforma”?

«Per me significa soffermarsi su tre aspetti che nella Riforma vengono sottolineati in modo particolare, per quanto nessuno di essi sia tipico solo della Riforma. Gesù si manifesta, in primo luogo, come rivelazione di Dio. Come porta di Dio, se così vogliamo esprimerci: nel momento in cui guardo a Gesù, comprendo che Dio è davvero creatore e signore del cielo e della terra. Il secondo elemento è costituito dalla Croce: “Cristo e questi crocifisso”, nell’el’Italia. spressione di Paolo. È il tema del Dio ucciso e non uccisore, carissimo alla teologia del Novecento, in una linea che ha in Jürgen Moltmann il suo esponente più noto. Decisiva è la consapevolezza che il Dio trinitario è coinvolto in quanto accade sulla Croce e non è un’entità astratta che si limita a contemplare il sacrificio di Gesù dall’alto. Infine, il terzo elemento è il pro nobis con cui la storia della salvezza viene a coincidere. Gesù è Dio con noi e Dio per noi, conoscerlo significa conoscere quelli che Melantone chiamava i suoi beneficia: il fatto che nella mia relazione con Cristo sta la mia salvezza, perché Cristo stesso ha assunto la mia condizione. Accoglie tutto di me, ma non per abbandonarmi a me stesso. Mi accoglie come sono perché, così come sono, ho bisogno di essere trasformato dalla conversione».

Il centenario è un’occasione per tornare a riflettere su tutto questo?

«Penso di sì, se non altro per quanto riguarda Minoranza del cristianesimo in un mondo nel quale il cristianesimo è a sua volta minoranza, il protestantesimo italiano ha subìto negli ultimi decenni mutamenti innegabili. Un’approfondita conoscenza della Bibbia, che fino a poco tempo fa era patrimonio comune dei credenti, non può più considerarsi scontata nella comunità. Difficile stabilire, per esempio, quanto la preghiera dei Salmi appartenga ancora alla sfera della devozione personale. E altre osservazioni si potrebbero fare sul culto domenicale, che non coincide necessariamente con la sola predicazione della Parola. La predicazione rimane centrale, non ci sono dubbi, ma andrebbe forse meglio inserita nel contesto della liturgia. C’è tutta un’ampiezza di registri da esplorare, a partire dalla dimensione del canto liturgico, che del resto appartiene assai profondamente alla tradizione protestante».

Il centenario può essere uno stimolo al dialogo ecumenico?

«Il pontificato di Francesco determina una situazione che ha aspetti di grande interesse per i protestanti. A volte si tratta del rafforzamento di processi già maturati nel passato, primo fra tutti il superamento della logica di contrapposizione tra una confessione e l’altra. Di suo, papa Bergoglio esce dalla mentalità di un primato assoluto dell’elemento dottrinale. Per me è abbastanza evidente che quella di Francesco è una teologia del tutto conforme alla tradizione cattolica e il suo ecumenismo non va misurato sulla base di una maggiore o minore vicinanza al protestantesimo. Ma in questo caso è la modalità stessa dell’incontro ad assumere valenza teologica. Nessuno può sapere quanto durerà questa fase, né se l’eredità di Bergoglio verrà raccolta dal suo successore, eppure questo non toglie nulla al carattere energico dell’attuale pontificato. So che nella Chiesa cattolica si parla volentieri di svolta, se non anche di rivoluzione. Ogni svolta, però, implica una conversione, come ci insegna Lutero.Questa volta, forse, ci si potrebbe accontentare di un po’ di autocritica: se si elogia il cambiamento è perché di cambiare qualcosa c’era bisogno, no?».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: