mercoledì 23 settembre 2020
Il vescovo di Pinerolo muove dalla sua esperienza di malato per arrivare con la riflessione all’esperienza estetica, che può allargare altri “polmoni”, certamente non meno reali
Visitatori alla mostra di Cindy Sherman alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, aperta fino al 3 gennaio 2021

Visitatori alla mostra di Cindy Sherman alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, aperta fino al 3 gennaio 2021 - Ansa/Epa/Mohammed Badra

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Sono stato a lungo intubato a causa del Coronavirus. Il respiro, questo atto così normale da sembrare ovvio, era diventato un desiderio acceso, un sogno, quasi un miraggio. Prima dell’intubazione, dentro il “casco”, a poco a poco il respiro si faceva flebile. La possibilità di finire in apnea diventava più vera a ogni respiro. E con l’apnea faceva capolino la morte, questa compagna insonne e sorda. Finisce il respiro, tutto diventa buio, una porta si chiude. Per fortuna i dottori e le “macchine” mi hanno riportato in vita. A poco a poco ho ripreso a respirare.

Sono tornato al mondo. E ogni giorno mi stupisco di questo evento meraviglioso: il respiro. E mi stupisco del dono vitale dell’aria. Sta lì, ovunque attorno a me, gratuitamente. Abbiamo bisogno di respirare per vivere. Non solo fisicamente. La nostra anima ha bisogno di respirare per vivere. L’arte ci aiuta a respirare. Apre squarci. Attrae gli occhi e rimanda oltre.

Ha ragione Massimo Recalcati a dire: «È forse diventato un vero e proprio tabù ricordare oggi che l’opera d’arte, come sanno bene tutti i grandi artisti, intrattiene sempre un rapporto con l’assoluto, con l’irraffigurabile, con tutto ciò con cui non è possibile stabilire alcun rapporto? Nella storia dell’arte il nome di questo “assoluto” è stato tradotto in modi diversi… ma in ciascuna di queste traduzioni si può ritrovare l’idea dell’opera d’arte come ponte che conduce al mistero delle cose. Questo significa che l’evento dell’opera d’arte, quando è tale, vive della sua sola immanenza anti-illustrativa – ogni opera non vuole dire niente, non significa niente se non se stessa – ma proprio per questo, proprio perché il suo evento è al di là di ogni riferimento a esso esterno, deve rifiutarsi a ogni riduzione tautologica preservando la sua trascendenza interna. L’immanenza dell’opera porta infatti sempre con sé un’apertura che accade solo come piega interna alla sua totale immanenza».

L’arte è un ponte verso il mistero delle cose, cioè ci porta a vedere le cose come mistero. Il rischio quotidiano è ridurre tutto a oggetto, a 'cosa' misurabile e pesabile. In questo modo si perde la ricchezza delle cose. Ogni oggetto e ogni persona sono sempre “molto di più”. La verità non è ciò che so, ma ciò che non so ancora, ciò che mi sfugge, che riesco solo a intuire. La verità è “sempre più grande”. Proprio questo è il significato vero di “mistero”: “qualcosa di più grande”.

L’arte, infatti, non è un passatempo, ma un linguaggio. Come tutti i linguaggi (scientifico, filosofico, teologico) non è un modo diverso di dire le cose, bensì uno strumento per dire aspetti che sfuggono ad altri linguaggi. L’arte non dimostra, mostra. L’arte evoca, apre squarci, rimanda e tiene insieme. Perché è un linguaggio simbolico. Porta in sé un’apertura.

Così ci aiuta a “tirare su” il soffitto, ad ampliare lo spazio. Rendendo il mondo un po’ più respirabile. Meno fisso, meno angusto. Meno ripiegato su se stesso. Capace di ricerca, di attesa, di sogno. Capace di profezia. Per aiutarci a guardare le cose da altri punti di vista. Addirittura per aiutarci a sogio, gnare altri mondi possibili. È vero, a volte l’arte ci fa trattenere il respiro. È l’esperienza dello stupore.

«Lo stupore si produce come l’essere raggiunti da qualcosa di imprevisto, di un sovrappiù di realtà non preventivato, la cui evidente presenza ha la forma del numinoso, del risplendente, del fascinoso, di quanto affiora per propria pura forza di manifestazione, capace di sorprendere sistematicamente l’attesa analitica dello sguardo. Un tramonto, una bella donna, un atto di coraggio, un gesto di dedizione, un bambino appena nato, tutto quanto si mostra come presenza dell’inedito, dell’inatteso, ma che una volta visto, viene subito ritenuto come qualcosa che non potrebbe non esserci, che non potrebbe che essere così, che anche dovrebbe, se potesse, essere sempre così. Il potere di questa apparizione è di sospendere per un istante il movimento ordinario del corpo, di fermare l’azione, per concentrare l’intero della presenza di sé nell’atto dello sguardo, essere tutt’occhi per il fatto di trovarsi al cospetto di qualcosa che sopravanza il preordinato, l’utile, l’organizzato, che invece evidentemente ha a che fare con una qualità fontale e originaria dell’esperienza… Esclamare “Che bello!” ha il senso di credere fermamente che proprio così il mondo, la vita, l’esistenza, dovrebbero essere sempre, che quello è il suo giusto senso, vale a dire il suo vero significato e la sua giusta direzione» (G. Zanchi).

Vedere qualcosa di bello fa trattenere il respiro per farci meglio respirare. Per farci intuire che c’è qualcosa di bello al mondo. Che c’è un senso a tutto questo. Assaliti dalla pandemia e dalle sue conseguenze ci sentiamo fragili, precari, impauriti. La paura rosicchia la nostra capacità di fiducia: negli altri, nelle istituzioni, nel futuro. L’arte ci attrae con attimi di bellezza. Per farci sentire vivi, felici di respirare.

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