mercoledì 8 marzo 2017
L'artista è tra i rari virtuosi di violino nel jazz. Studi con Perlman e Menuhin, ha collaborato con Roach e Marsalis: «Il palco è stato una scuola. In questo ambiente sessismo e razzismo resistono»
La violinista americana Regina Carter

La violinista americana Regina Carter - David Katzenstein

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«Ogni cultura ha la propria musica classica: il jazz è la musica classica degli Stati Uniti». Regina Carter risponde così, alla domanda su cosa sia il jazz cent’anni dopo la sua nascita. Ed espresso da Regina Carter, il concetto di cui sopra prende un valore particolare: giacché la Carter, classe ’66, è oggi fra i jazzisti più colti nonché più vicini alle radici del genere. Virtuosa infatti per studi classici di uno strumento del primo jazz quale il violino, e per questo definita unica erede di Stéphane Grappelli, l’artista di Detroit ha lavorato con Max Roach e Kenny Barron, inciso standard di Ellington e Monk, spaziato dall’improvvisazione jazz a blues e gospel arrivando a incidere Debussy o Ravel. E c’è anche di più, visto che ora Regina si sta dedicando alla musica classica americana, come la definisce, omaggiando nel centenario del jazz i cent’anni dalla nascita della più grande voce del jazz medesimo. Il 25 aprile 1917 a Newport News in Virginia nasceva infatti Ella Fitzgerald, che la Carter definisce «Fonte», con la maiuscola, della sua vita nel jazz, e cui dedica nuovo spettacolo e nuovo disco. L’album, intitolato Ella: accentuate the positive, uscirà nel mondo il 21 aprile anticipato però dal tour in Italia, che vedrà Regina Carter in “Simply Ella” il 22 marzo a Forlì, il 23 a Piacenza, il 24 a Bergamo, il 25 a Ferrara, il 27 a Salerno, il 28 a Castelfranco Emilia e il 29 a Manerbio; sul palco con lei Marvin Sewell (chitarra), Jesse Murphy (contrabbasso) e Alvester Garnett (batteria) che nel disco (Sony) daranno vita col violino della Carter ai brani della Fitzgerald All my life, Dedicated to you, I’ll chase the blues away, I’ll never be free e diversi altri.

Lei ha fatto master con grandi della classica, Itzhak Perlman, Yehudi Menuhin: cosa ha imparato nel jazz?

«Quando iniziai a fare trascrizioni jazz il mio insegnante del collage, Marvin “Doc” Holladay, mi disse di non ascoltare solo violinisti se volevo arrivare a un mio suono personale: e così imparai solismo e fraseggio dai dischi di Charlie Parker, Ben Webster, Billie Holiday. Poi con John Blake jr., grande violinista, ho allargato la mia gamma di ascolti, e nel ’98 in tour con colleghi di generazioni diverse ho capito molto. Infine Kenny Barron, Wynton Marsalis e Ray Brown mi hanno educato al palco… sul palco».

Che importanza ha il violino nel jazz

«Purtroppo non si conoscono molti grandi che ne hanno sviluppato il linguaggio: io stessa sono partita da Grappelli, Jean Luc Ponty e Noel Pointer scoprendo solo dopo Stuff Smith, Michael White o Leroy Jenkins. Il violino non è ancora accettato del tutto nel jazz: e chiunque si impegni a suonarlo può farlo crescere».

Che cosa ha dato al jazz invece Ella Fitzgerald?

«Una voce inimitabile. Era qualcosa di speciale: senza sforzo ha attraversato ogni frontiera musicale; ha reso il canto “ scat”, improvvisato, popolare; inoltre componeva, cosa non comune ai suoi tempi. Ed era stata discriminata due volte, come donna e come nera. Ma ha trovato forza e libertà nella musica. Ci ha lasciato un esempio, e tanta musica che fa bene».

Perché il suo cd non s’intitola come lo spettacolo?

«Perché il concetto di sottolineare ciò che è positivo, una delle eredità di Ella, mi è parso molto appropriato al clima politico di oggi… “Simply Ella” era il titolo del progetto prima, quando nasceva».

Come e con quali brani racconta Ella in scena?

«Avevo già inciso alcune sue hit, ora punto sui lati B: reinterpretandoli dopo aver fatto ascoltare al pubblico come lei cantava i brani in origine».

È difficile essere donna nel jazz del Duemila?

«È stato più difficile convincere gli altri che valesse la pena studiare il violino. Fortunatamente sono forte e sono cresciuta in una città capace di prepararmi a New York: ora so capire se una situazione è nel mio interesse o no, e ho imparato che non tutti i grandi artisti sono belle persone. Però di sessismo e razzismo ce n’è ancora, nel jazz».

Quali jazziste vanno ricordate per averlo combattuto?

«Valaida Snow, che fu anche internata nei lager nazisti; Mary Lou Williams, che arrangiò l’orchestra persino per Ellington; Melba Liston, trombonista e compositrice; Etta Jones, cantante e autrice da non confondersi con Etta James star del blues; Alice Coltrane, unica grande arpista jazz. Le più importanti assieme alla Fitzgerald sono loro».

Il jazz è musica spirituale o forse dovrebbe esserlo?

«Per me lo è. Permette di connettersi con altri e col pubblico, in una comunione veramente bellissima».

Quali dischi jazz insegnerebbe in una scuola?

«Direi Sidewinder (1964) del trombettista Lee Morgan; Complete 36-37 sessions del violinista Stuff Smith; Out to lunch! di Eric Dolphy, sassofonista, flautista e clarinettista… Ma anche opere del chitarrista Wes Montgomery, del violinista Johnny Frigo, del cantante Eddie Jefferson che ha creato il “ vocalese”. E porterei pure Only the lonely di Frank Sinatra. Di Ella almeno Take love easy con la chitarra di Joe Pass, del ’73, ed Ella at Duke’s Place del 1965».

Lei ha già altri progetti dopo l’omaggio a Ella?

«È presto. Ne ho uno solo: quando non suono faccio volontariato in un hospice. E creda, mi dà molto».

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