giovedì 2 maggio 2013
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«La capirei se fosse una proposta, ma così si tratta di un’imposizione che toglie libertà alla scuola, comprensibile solo in un regime assolutista. Tanto più che, per dirla con Clifford Stoll, uno dei pionieri di internet, se vogliamo un Paese di stupidi è sufficiente centrare sulla tecnologia il sistema di studi. Un’istruzione di qualità, invece, richiede applicazione, sacrifici, richiede di fare i compiti a casa e senza fare il copia-incolla dal web, come purtroppo molti insegnanti mostrano di accettare». A parlare in questi termini è Giovanni Reale, uno dei maggiori esperti a livello mondiale di pensiero antico (i suoi libri sono tradotti in 22 lingue), già docente alla Cattolica di Milano e all’Università San Raffaele. Sull’onda della decisione del ministero di sostituire obbligatoriamente dal 2014 nelle scuole i testi cartacei con quelli digitali ha scritto un pamphlet per la Editrice La Scuola, dal titolo: Salvare la scuola nell’era digitale (pagine 101, euro 10). «Attenzione però – aggiunge Reale – io non sono contrario alle nuove tecnologie, dico però che non devono essere assolutizzate, ma considerate come uno strumento»Secondo lei non è stato ben compreso il rischio di questa scelta?«Ho letto alcuni articoli che hanno paragonato questa iniziativa alla diffusione della stampa nel Rinascimento, in cui si sosteneva che proprio la stampa ha fatto nascere la cultura della scrittura. Un errore storico gravissimo. La cultura della scrittura è precedente a Platone. E non è vero che l’uso diffuso della scrittura ha fatto nascere la filosofia, semmai è il contrario. È stata la necessità di conservare i dialoghi di Socrate a costringere i suoi discepoli a trascriverli, perché la semplice memoria non poteva essere sufficiente. Erano famosi i dialoghi trascritti da Simone il ciabattino, nella cui bottega spesso Socrate si intratteneva. Quando il filosofo usciva, Simone ne trascriveva le parole. Insomma, la diffusione della stampa ha rafforzato una cultura che esisteva da migliaia di anni, non l’ha creata né promossa. E le nuove tecnologie nei fatti capovolgono quello che per 2500 anni è stato diffuso con la scrittura, che ne esce sconfitta».Un rischio culturale e sociale insieme.«Ciò che non si vuole comprendere è che questi strumenti cambiano il modo di pensare, di rapportarsi con le cose, con gli altri e con se stessi. Io uso i treni dei pendolari da tanti anni per recarmi a Milano. Oggi la gente sale, non saluta più nessuno, si siede e si mette in rapporto con uno strumento tecnologico. Nessuno si cura più di nessuno».Ci sono milioni di persone entusiaste di fare amicizia su internet.«Gli studi più recenti dicono che quasi tutte le relazioni nate sul web quando diventano conoscenze "fisiche" si interrompono. Il virtuale non è il reale. Negli Usa ci sono aziende che cominciano a imporre ai loro dipendenti di comunicare fra loro, almeno una volta alla settimana, senza mediatori tecnologici, faccia a faccia. La comunicazione multimediale è ridurre al minimo le relazioni».Questo che significato ha per la scuola e gli studenti?«Qualcuno ha già teorizzato il passaggio del sapere dagli insegnanti alle macchine. Nei fatti gli insegnanti dovrebbero diventare dei tecnici, degli assistenti delle macchine. In questo modo si rompe il rapporto fra persona e persona e la scuola non è più scuola secondo un modello che è servito a costruire la nostra cultura (quindi anche le nuove tecnologie) per migliaia di anni».Ormai da decenni il rapporto fra docenti e allievi è compromesso.«Si dice che la scuola peggiore in Europa sia quella francese (ma noi seguiamo a ruota) in cui la colpa è sempre dell’insegnante e mai dell’alunno, in cui si è proposto di abolire i compiti a casa, perché la famiglia, corrosa dall’interno, non vuole più avere problemi con i figli. Ma già 50 anni fa, quando insegnavo nelle scuole di recupero, i ragazzi più difficili venivano da famiglie sfasciate, che non se ne prendevano cura».Oggi le famiglie sono sempre meno famiglie e i ragazzi sempre più soli...«Per questo è necessario che la scuola ricominci a fare la scuola e non abdichi definitivamente».E cosa deve fare la scuola per fare la scuola?«Bisogna tornare a comprendere che tutto ciò che si apprende è frutto di fatica e il grado di istruzione è direttamente proporzionale all’impegno. Oggi invece c’è chi si presenta per la laurea con tesi scopiazzate da internet. Recentemente a un premio per i giovani sull’Europa sono stati trovati tre temi uguali. Gli autori, esclusi, si sono ribellati sostenendo di essersi impegnati nel fare ricerca. Ma hanno fatto solo copia e incolla dallo stesso sito web».Viene in mente la frase di Clifford Stoll da lei citata all’inizio.«Il problema non sono le nuove tecnologie, ma l’uso sbagliato che se ne fa. Internet lo uso e mi è utile. Ma lo uso come mezzo, non come fine della mia conoscenza. Quando venni chiamato dal ministro Berlinguer nel gruppo di studio per la riforma scolastica, mi trovai in conflitto con alcuni dei colleghi (gli stessi che hanno ispirato il ministro Profumo) che sostenevano che i classici a scuola sono superatissimi. "Basta con i classici" dicevano, bisogna dare strumenti multimediali. Io obiettavo che gli strumenti non sono i contenuti. Loro a insistere che i contenuti vengono fuori dall’uso degli strumenti. Ma questi strumenti non possono essere considerati dei creatori di contenuti. Gli strumenti servono per diffonderli, non per crearli. Chi mette i contenuti negli strumenti?».Quindi, tornando alla scuola?«Un Paese che vuole costruire futuro deve fare in modo che la scuola non perda il suo ruolo di costruttrice di rapporti umani e di quella forza produttiva che è l’intelligenza dell’uomo, che costruisce le macchine e le usa, ne idea e ne costruirne altre. Lo scopo del mio libro è denunciare questo rischio. Come diceva Marco Aurelio, "al mattino, quando ti svegli e ti senti stanco, devi dire: mi alzo per compiere il mio mestiere di uomo". E allora dobbiamo chiederci con sincerità: ma l’uomo ipertecnologico come se la cava nel mestiere ultimativo che è quello di essere vero uomo? Oggi a chi è affidato il compito di costruire gli uomini di domani? Alle macchine?».
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