martedì 22 giugno 2021
Se la cinquecentesca epopea francese è la madre della grande forma letteraria che identifica la modernità occidentale, la sua “preistoria” sarebbero i Misteri tardomedievali
Jehan Georges Vibert, “Leggendo Rabelais” (particolare), XIX secolo

Jehan Georges Vibert, “Leggendo Rabelais” (particolare), XIX secolo - WikiArt

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«Dice un bellissimo proverbio ebraico: “L’uomo pensa, Dio ride”. Mi piace immaginare che Rabelais abbia udito un giorno la risata di Dio e che sia nata così l’idea del primo grande romanzo europeo. Mi diverte pensare che l’arte del romanzo sia venuta al mondo come eco della risata di Dio». Questa nota frase di Milan Kundera, tratta dal saggio L’arte del romanzo, in Italia pubblicato da Adelphi nel 1988, ben evidenzia l’essenza stessa del romanzo europeo nato, secondo lo scrittore cecoslovacco, proprio con Rabelais e il suo ciclo dedicato a Gargantua, Pantagruel e Panurge.

Con la creazione di personaggi memorabili e attraverso l’ironia il romanzo è stato più capace della filosofia e della scienza, sin dagli albori della modernità, di raccontare le profondità dell’animo umano, di scandagliarne gli abissi e al tempo stesso di neutralizzarli con le virtù dell’umiltà e della saggezza. Disinnescando sin dall’inizio la pretesa assolutistica della ragione di giungere alla conoscenza suprema e assoluta della complessità della vita.

La giocosità di Rabelais, che si scagliava contro i teologi della Sorbona e i monaci austeri che a quel tempo propagandavano l’idea di un Dio rigido e torvo, è contrapposta alla severità di Pascal da parte del filosofo Michel Serres, anch’egli difensore della letteratura perché più profonda delle scienze umane: «Che cos’è la letteratura? Il racconto indefinito dei possibili umani. Meglio, l’epistemologia delle scienze umane molli».

Sarebbe piaciuta a Rabelais questa definizione, quel Rabelais che fu francescano e poi benedettino, infine medico e poi parroco; che simpatizzò per la riforma di Lutero e Calvino (di quest’ultimo soprattutto, che però condannò i suoi scritti così come la Chiesa cattolica) per poi distaccarsi dal loro rigorismo; e che fu grande ammiratore di Erasmo e del suo umanesimo cristiano, tanto da inviargli nel 1532, l’anno della pubblicazione di Pantagruel, una lettera in cui gli esprimeva tutta la propria riconoscenza intellettuale.

Altro che ateo e critico radicale delle Chiese, come per decenni l’hanno voluto inquadrare numerosi critici letterari non solo d’Oltralpe.


Per il greco Lakis Proguidis l’autore di “Gargantua e Pantagruele” instaura un nuovo regime estetico fondato sulla logica dell’incarnazione, che non separa umano e divino, e su una efficace vis comica che non è derisione ma empatia

Già lo storico Lucien Febvre peraltro, in uno studio del lontano 1942 (in Italia tradotto solo nel 1978 da Einaudi col titolo Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais), aveva messo in luce il debito profondo di Rabelais verso l’autore dell’Elogio della follia e il suo radicamento nell’umanesimo cristiano, il movimento di riforma morale del cattolicesimo e di ritorno ai Vangeli che sarebbe stato il grande sconfitto della storia del Cinquecento: sconfitto da Lutero e da Loyola.

Prima di lui il filosofo Etienne Gilson in un’opera del 1924 arrivata solo nel 2009 nel nostro Paese grazie all’editrice Medusa ( Il Dio degli increduli. Villon e Rabelais) aveva sostenuto il cristianesimo dell’autore francese, contro la vulgata che lo riteneva pagano e mondano, se non un libertino. E anche Michail Bachtin, in una monografia del 1965 dal titolo Habent sua fata libella, divenuto da noi L’opera di Rabelais e la cultura popolare (Einaudi, 1965), non si era discostato molto da questa visione, ricercando le origini dei romanzi rabelaisiani nella cultura comica e carnevalesca del Medioevo. Un tentativo di umanizzare la cultura spirituale dominante.

Ed è a Bachtin, alla sua lettura dialogica e polifonica delle opere letterarie che gli avrebbe provocato la condanna del regime sovietico, che si collega esplicitamente il critico letterario greco Lakis Proguidis, da tempo trasferitosi in Francia, nel volume I misteri del romanzo. Da Kundera a Rabelais, appena pubblicato da Mimesis (pagine 418, euro 28).

Un saggio prolifico e denso, pieno di digressioni sulla sorte della letteratura, in cui prende le distanze dalla corrente strutturalista che in Occidente ha dominato il dopoguerra e cui si deve una lettura riduttiva dell’opera dello stesso Bachtin.

«Quando parliamo di romanzo – scrive Proguidis quasi rievocando Kundera – parliamo di una grande arte. Di un’arte maggiore che domina e influenza le altre arti. Di un’arte che forgia l’uomo e il mondo a sua immagine. Di un’arte che pervade la mente, l’anima, il corpo ». Si tratta di un’arte che, come ben dice Simona Carretta nell’introduzione, si pone come «il luogo di una specifica interrogazione estetica, contestandone la riduzione a semplice genere narrativo avanzata sia dal fronte dei giornalisti che da quello degli specialisti».

Un’arte la cui nascita alcuni hanno voluto identificare col Decameron di Boccaccio (1350), altri con La principessa di Clèves pubblicato nel 1678 da Madame de la Fayette. Ma ormai fra gli studiosi è abbastanza unanime l’attribuzione a Rabelais: a lui si deve per Proguidis la nascita di un nuovo regime estetico che sarebbe giunto sino a noi e che avrebbe due fondamenti essenziali.

Il primo è il cristianesimo con la sua logica dell’incarnazione, la non separazione fra umano e divino, la convivenza fra materia sacra e profana che ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo dell’Europa. Il secondo è il riso, che non è il riso della satira greca a partire da Aristofane e nemmeno il riso umoristico che fa della derisione altrui l’obiettivo principale. È «la manifestazione del piacevole turbamento che proviamo nel momento in cui un personaggio romanzesco decide di far parte della nostra intima natura».

È il riso di Gesù di cui parla Chesterton in Ortodossia, quel Gesù che non ha trattenuto la sua collera e non ha nascosto le sue lacrime, tuttavia ha tenuto in serbo qualcosa: «C’era qualcosa che Egli nascondeva a tutti gli uomini quando saliva sul monte a pregare. C’era qualcosa che Egli occultava con un improvviso silenzio o con un impetuoso isolamento. C’era una cosa troppo grande perché Dio potesse mostrarcela quando è venuto sulla terra, e io qualche volta ho immaginato che fosse il suo riso».

Questa vena che dà origine al romanzo Rabelais la ritrova nei Misteri, spettacoli itineranti del tardo Medioevo a cui aveva partecipato come attore. Sacre rappresentazioni che nelle pause vedevano i protagonisti recitare liberamente, con farse improvvisate nelle piazze, Sacro e profano si univano in queste kermesse artistico- religiose.

«Ecco allora – conclude Proguidis – la mia ipotesi cardinale: l’arte del romanzo nasce dai Misteri. I Misteri sono la sua preistoria». Il riso proprio del paganesimo che la Chiesa aveva combattuto non è stato cancellato ed è riemerso come un fiume carsico convivendo con la dimensione austera e dando spazio alla farsa, ciò che “farciva” l’essenziale. Permettendo così al romanzo di prendere forma.

Nel momento in cui molti studiosi decretano la morte del romanzo, leggere il saggio di Proguidis spalanca finalmente nuovi orizzonti.

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