martedì 2 febbraio 2021
A partire dal saggio di Nora e Chandernagor lo storico Franco Cardini rilegge il tentativo che dalla Francia si è esteso all’Europa di mettere delle restrizioni alla libertà di ricerca
Una statua di Leopoldo II del Belgio imbrattata durante i moti anticoloniali del 2020

Una statua di Leopoldo II del Belgio imbrattata durante i moti anticoloniali del 2020 - Epa/Stephanie Lecocq

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Pierre Nora e Françoise Chandernagor, che guidano l’associazione francese 'Liberté pour l’histoire' hanno dedicato un saggio agli effetti e ai rischi connessi a quelle che sono note come 'leggi memoriali'. Il libro ora esce anche in Italia a cura di Vincenzo Fidomanzo - Libertà per la storia, edito da Medusa (pagine 96, euro 13) - con introduzione dello storico Franco Cardini, da cui anticipiamo alcuni brani. Nel 2012 il Consiglio costituzionale francese ha dichiarato la decisione quadro adottata poi in 22 paesi europei contraria alla Costituzione della Repubblica francese.

Come potrebb’essere mai possibile, in tempi di libertà, limitare o addirittura negare quella della ricerca storica? E chi potrebbe mai essere interessato a farlo, dal momento che la storia - nonostante un certo livello di successo mediatico, del resto limitato ad alcuni argomenti - non sembra certo una disciplina al centro della nostra vita sociale e tantomeno una fonte di potere e di ricchezza? Eppure tutto ciò sta accadendo: nel nostro Occidente, nella nostra Europa, alcuni politici e alcuni opinion makers mediatici sembrano ben decisi a circondare di attenta cautela quanto meno certi argomenti e contenuti della ricerca storica e a tener d’occhio gli incauti ricercatori - o magari, al contrario, gli astuti eversivi, i malintenzionati provocatori, i 'terroristi intellettuali' - che si aggirano per territori del passato a loro parere sospetti. La questione non è nuova, anzi è piuttosto stagionata: ma ogni tanto conosce inattesi revivals. Esiste purtroppo, nell’ampio e diversificato campo delle discipline storiche e delle attività correlate, un altrettanto ampio “mercato delle bufale”. Non è accettabile però che sia la politica a far sì che, per legge, si stabilisca che cos’e che cosa non è legittimo affermare, proporre o addirittura ipotizzare nel campo della storia. In Francia, si è costituita fin dal 2005, grazie al concorso di molte centinaia di storici - e il loro numero è in aumento - un’associazione denominata “Liberté pour l’Histoire”, il cui attuale presidente, il celebre studioso Pierre Nora, è appunto coautore di questo libro (Libertà per la storia, Medusa).

La tematica che vi è presentata, senza dubbio alcuno, è bien française: ma vi si affrontano temi familiari anche nel nostro Paese e corrispondenti a situazioni che - mutatis mutandis, e per giunta con pochissimi mutanda da mutare - si verificano da tempo anche da noi. Attaccato, negli ultimi tempi, è stato lo stesso ruolo pubblico della storia. Non c’è dubbio che esso possa corrispondere a temi banali, retorici, abusati, che sarebbero tutti suscettibili di ripensamenti profondi e magari, in alcuni casi, di veri e propri capovolgimenti di giudizio. Chi ha mai detto che non si possa 'dir male di Garibaldi'? Al contrario: un serio dibattito su certi idola fori e sull’opportunità o meno della loro permanenza come tali sarebbe legittimo e auspicabile; e al riguardo l’uso terroristico di accuse come quella di 'revisionismo' è tanto purtroppo consueto quanto odioso. Tuttavia, di recente si è verificata una serie di manifestazioni anche violente partita dagli Stati Uniti d’America e approdata anche in Europa: essa si è configurata come ripetuti assalti, paese per paese, a simboli della memoria comune condivisa (lapidi, statue e così via). Ci si è così trovati dinanzi a un fatto addirittura nuovo: non l’attacco a opinioni eventualmente minoritarie e magari isolate che sembrino opporsi a tesi o a ipotesi storiche sulle quali poggino addirittura pubbliche istituzioni tutelate da una normativa ufficiale (è il caso di quelle configurabili come 'negazionistiche' nei confronti della Shoah o come 'vilipendio alla Resistenza'), bensì l’espressione tumultuosa di una sorta di 'revisionismo di massa' (o quanto meno sostenuto da vere e proprie folle) nei confronti di un passato i connotati del quale apparivano da tempo condivisi e consolidati.

È abbastanza normale che, dinanzi ai tempi che si preparano, si torni a interrogarsi anche sul passato; e che la ricerca storica non possa subire limitazioni estrinseche al suo statuto, non possa accettare tabù imposti dal di fuori di se stessa. Tutto ciò è divenuto evidente in rapporto al progetto di adozione, nel 2007, di una legge-quadro valida in tutti i paesi d’Europa che, sotto le vesti esteriori della difesa di una verità ormai acclarata e definitiva, minacciava in realtà la libertà di ricerca e la legittimità di modificare se e quando necessario gli esiti d’indagini ritenute ormai desuete. La norma paradigmatica che protegge quanto lo sviluppo ulteriore degli studi ha messo in discussione attraverso la sanzione di 'leggi memoriali' è improponibile: d’altro canto, «l’apologia pubblica, la negazione o la grossolana banalizzazione» dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra è già proibita e condannata da leggi vigenti ch’è sufficiente applicare e che riguarda la calunniosa propaganda della quale è agevole comprovare l’estraneità rispetto a un passato del quale esistono prove certe e condivise. Ma nessuna forza politica, ancorché pretestuosamente tradotta in normativa legale, può sostituire quella che emerge dall’escussione delle prove storiche.

In Austria, nel novembre del 2005 lo storico inglese David Irving venne incarcerato per aver espresso opinioni giudicate 'negazioniste', e al riguardo accusato di negazionismo (cioè, va sottolineato, di un delitto d’opinione): ma Irving perse al riguardo anche una causa da lui intentata per diffamazione contro la giornalista Deborah Lipstadt: su ciò è stato anche girato un film, La verità negata. Eppure egli da molte parti venne sbrigativamente liquidato come 'storico dilettante', tuttavia, pur essendo noto per atteggiamenti provocatorii e per posizioni scomode, è stato anche apprezzato per alcuni suoi libri nei quali dimostra una notevole preparazione storica. Pur non sognandosi mai di negare la storicità dell’olocausto, Irving ha prodotto in varie occasioni documenti che ridimensionano alcuni casi particolari della sua storia. Ebbene, ricerche di questo genere non mutano certo il giudizio etico generale che va dato sulla politica nazista di sterminio: ma la storia è una scienza del particolare, e il correggere questo o quell’altro aspetto di dati che si ritenevano definitivi fa parte del lavoro dello storico.

Già alle soglie di quell’età che 'moderna' si convenne di qualificare, cioè a partire dai del XVI secolo, l’Occidente prese a gradualmente rinunciare ad attribuire un senso all’universo e alla vita. Questa rinuncia era il prezzo da pagare per costruire una società che potesse fare a meno di Dio: il prezzo del processo di secolarizzazione. Il crollo delle ideologie alla fine del XX secolo ha completato tale iter inducendo l’idea che nemmeno la storia ha un senso. Ma ciò comporta un 'disincanto' che non tutti sono in grado di accettare. L’historically correctness che ha evocato i fantasmi del 'revisionismo' ha attinto all’angoscia scaturita dalla perdita delle beate certezze ideologiche e storico-deterministiche. Chi rivisitando la storia propone letture del passato diverse da quelle storicizzate e tranquillizzanti già collaudate può mettere in discussione anche il futuro. Ecco perché qualcuno ritiene indispensabile la demonizzazione di quanto si discosta da un passato che è stato promosso a “mito di fondazione” della civiltà delle lobbies economico-finanziarie e del loro “governo profondo”.

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