domenica 5 dicembre 2021
Ottant’anni dopo l’attacco del Sol Levante alla base navale Usa alle Hawaii, la storia mostra che l’impresa fu un boomerang per gli aggressori: così gli States uscirono dal loro isolazionismo
Una della fotografie di Pearl Harbor scattate da un aereo giapponese mentre un siluro colpisce la West Virginia

Una della fotografie di Pearl Harbor scattate da un aereo giapponese mentre un siluro colpisce la West Virginia - -

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L’attacco giapponese a Pearl Harbor, avvenuto il 7 dicembre 1941, non segnò solo l’entrata in guerra degli Stati Uniti; segnò l’inizio del tramonto dell’imperialismo nipponico. Pare strano dirlo, avendo i giapponesi quasi completamente annientato, con perdite irrisorie da parte loro, la flotta statunitense del Pacifico e inferto migliaia di vittime agli USA; ma è così e a 80 anni di distanza ogni evento di quel tempo non si sottrae più al giudizio storico sull’errore che Pearl Harbor rappresentò per i giapponesi - al di là dell’esser divenuta per loro, in un giudizio morale, anche fonte d’«infamia senza pari», come disse il presidente americano Roosevelt, a causa di un’aggressione subita da parte di un Paese col quale non erano in guerra.

Forte di un nuovo armamento, col fanatismo di chi si vedeva leso e offeso nelle proprie mire espansionistiche, il Paese del Sol Levante fremeva per infliggere un colpo mortale al colosso USA, mettendolo in anticipo fuori combattimento e il bersaglio aveva un nome, Pearl Harbor, nell’isola Oahu delle Hawai, a dieci km dalla capitale Honolulu: la maggior base navale degli americani, nella quale da tempo si muovevano spie nipponiche.

Sulla base di loro dettagliati resoconti, da fine novembre 1941 si convenne a Tokyo di «scalare il monte Nijtaka», nome in codice dell’attacco. Partito l’ordine, nella sera del 6 dicembre si mosse alla volta delle Hawaii il nucleo centrale della flotta imperiale, con ben 6 portaerei, 400 aerei, 2 corazzate, 3 incrociatori, 16 cacciatorpediniere e 27 sommergibili, al comando dell’eroe dei mari Nagumo, il quale rispondeva direttamente al primo ammiraglio Yamamoto, ideatore dell’attacco; lo spostamento di una tale flotta venne anche intercettato e assurdamente sottovalutato dall’intelligence USA e da Roosevelt, il quale si limitò, prima di andare a dormire, a dire: «Qua si va in guerra», senza capire che era già guerra.

Nessuno informò il personale di Pearl Harbor.

Così alle 8 del giorno successivo, 7 dicembre, mentre a Pearl Harbor veniva issata la bandiera a stelle e strisce e la banda eseguiva l’inno nazionale, centinaia di aerei giapponesi, decollati a 400 km di distanza dalle portaerei, riempivano all’improvviso il cielo, scatenando un inferno di fuoco tra bombe, siluri e fittissima mitraglieria tanto sulla rada quanto sull’aeroporto.

Il solo comandante Nagumo non era contento e chiedeva di continuo ai suoi: perché i nostri piloti non vedono le due porteaerei? Non le vedevano perché, ignara di tutto, per propria somma fortuna la Marina statunitense aveva ordinato di manovrarle a centinaia di miglia da Hawaii, in direzione di Midway – nome in seguito fatale per la sconfitta in battaglia del Sol Levante.

Questa volta i nipponici non se n’erano accorti o avrebbero rinviato l’attacco a Pearl Harbor, il cui obiettivo principale erano proprio le portaerei Enterprise e Lexington; se fossero scampate alla distruzione, in qualunque altro punto del Pacifico dove si trovassero sarebbe stata infatti dislocata la vera nuova base per le operazioni, rapidamente e furiosamente riattrezzata dagli americani.

Realizzato che non c’erano, all’irritatissimo Nagumo non restò che informare Yamamoto a Tokyo dell’avvenuto attacco a sorpresa (iniziato un’ora prima con le famose parole «Tora! Tora! Tora!» – Tigre! Tigre! Tigre! –, indicanti che il nemico era stato colto alla sprovvista) e, meno di un’ora dopo, riferire l’avvenuta distruzione di quasi tutta Pearl Harbor, con la sola prima ondata di attacco che di fatto rendeva inutile la seconda, pure lanciata sulle rovine, sui morti e sui feriti a completarne l’annientamento.

Il bilancio per gli americani era nei numeri: 178 aerei distrutti e 159 danneggiati, l’80% della forza aerea messa fuori combattimento; delle 6 corazzate, 5 bruciate e affondate, con la sorte peggiore toccata all’Arizona, colata a picco con dentro mille uomini; distrutti gli incrociatori; in totale 2403 uomini morti, dispersi o poi periti in seguito alle ferite riportate, nonché altri 1178 feriti.

Il tutto era avvenuto in meno di 120 minuti. Al di là di questa contabilità da carneficina, a peggiorarne l’inutilità ci fu un’altra improvvida conseguenza per il Giappone: gli aerei non localizzarono sulla terraferma i depositi di carburante, che scamparono alla distruzione. Quindi i due obiettivi strategici – portarerei e approvvigionamento – furono del tutto mancati, sortendo il solo effetto di togliere Roosevelt da ogni imbarazzo circa un’immediata entrata in guerra, per l’attacco subito fuori da un contesto bellico.

In effetti nella storia militare moderna Pearl Harbor è rimasta per più versi un unicum, in cima a una graduatoria – peraltro ricca e tuttora impossibile da stilare – di aggressioni e orrori precedenti rispetto alle formali dichiarazioni di guerra. Nel 2019 è morto a 99 anni, nella sua casa di Nagano, l’asso dell’aviazione nipponica Kaname Harada, arruolatosi a 17 anni e autore dell’abbattimento di molti aerei statunitensi prima di partecipare all’attacco a Pearl Harbor. Finita la guerra lo deplorò, divenne pacifista e aprì degli asili per bambini orfani, di guerra e non. Disse che il modo migliore di compensare, per impossibile che fosse, tante vite spezzate a Pearl Harbor era di aiutare nuove vite a salvarsi e a crescere.

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