mercoledì 19 gennaio 2022
La scrittrice bielorussa ha raccontato in una trilogia, ora raccolta in un unico volume, i drammi del mondo sovietico: dalla lotta col nazismo alla sconfitta in Afghanistan
La scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la Letteratura nel 2015

La scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la Letteratura nel 2015 - Giorgio Boato

COMMENTA E CONDIVIDI

Tutta colpa di Remarque, nel senso di Erich Maria. Il nome o, meglio, il cognome dello scrittore tedesco, popolarissimo nella prima metà del Novecento, salta fuori in modo abbastanza inaspettato dai documenti relativi al dibattimento che nel 1993 vede imputata Svetlana Aleksievic. Siamo nel tribunale di Minsk, da un paio di anni la Bielorussia ha rivendicato la propria indipendenza, ma il quadro delle accuse riprende senza eccessive variazioni il repertorio in voga durante il regime sovietico. Ragazzi di zinco, il libro la cui veridicità viene messa in discussione, è colpevole di disfattismo, scarso patriottismo, pacifismo tendenzioso, intelligenza occulta con le potenze straniere. In una parola, di “remarquismo”, secondo l’indignata espressione adoperata a un certo punto dal giudice. Che magari non avrà mai letto Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma è stato comunque raggiunto dalla fama del più noto tra i titoli di Remarque, incentrato sul tragico destino di un gruppo di giovani tedeschi che, partiti con ingenuo entusiasmo, trovano la morte nelle trincee della Grande Guerra. Ragazzi di zinco, in effetti, rievoca una storia simile, solo che questa volta non si tratta della sconfitta degli Imperi centrali all’inizio del XX secolo, ma della fallimentare guerra combattuta dall’Urss in Afghanistan negli anni Ottanta. C’è anche un’altra differenza, non meno importante: se quello di Remarque è un romanzo in senso tradizionale, con personaggi di invenzione che assommano su di sé esperienze belliche, Ragazzi di zinco (l’allusione è alle anonime bare nelle quali venivano rimpatriate le salme dei soldati russi) è un 'racconto documentario', definizione in apparenza contraddittoria, che non a caso viene sottoposta a una perizia indipendente nel tentativo di chiarire i termini del contendere. Secondo l’illustre studioso incaricato di dirimere la questione, il genere ricade nel dominio della 'prosa artistica' e non è quindi soggetto alle regole solitamente in uso in ambito giornalistico. Di conseguenza, Ragazzi di zinco non può essere considerato un reportage. Per dirla nel modo più semplice, è uno dei capolavori per cui nel 2015 la scrittrice bielorussa sarà insignita del premio Nobel. I materiali del processo, conclusosi con una sentenza ambigua che non assolve e non condanna, costituiscono la principale novità della versione di Ragazzi di zinco che il lettore italiano trova ora all’interno di Guerre (a cura di Sergio Rapetti, pagine 1036, euro 35), primo volume delle Opere di Svetlana Aleksievic realizzate da Bompiani su espressa indicazione dell’autrice. Non si pensi, però, a una mera riproduzione degli atti. L’appendice giudiziaria è allestita secondo i criteri che la stessa Aleksievic riassume nella dichiarazione a sua volta composta «da ciò che è stato detto e da ciò non mi è stato consentito di dire». Ascoltiamola: «Io non invento, non estrapolo, ma organizzo il materiale che mi fornisce la realtà. I miei libri sono le persone che raccontano e io stessa, col mio modo di vedere il mondo e di considerare le cose. Scrivo, annoto la storia contemporanea nel quotidiano. Parole vive, vite e destini». L’allusione all’opus magnumdi Vasilij Grossman (Vita e destino, appunto) è tutt’altro che fortuita, così come inequivocabile, per quanto inespresso, risulta il riferimento al metodo di lavoro di Fëdor Dostoevskij, il grande romanziere febbrilmente attratto dalle vicende minute e orribili della cronaca nera. Nata in Ucraina nel 1948, in un ambiente pervaso dai ricordi della guerra appena terminata, anche Aleksievic si è formata alla letteratura attraverso l’apprendistato giornalistico, fino a elaborare un’originalissima forma di narrazione ibrida che, per comodità, si può indicare con il termine di 'racconto documentario'. Gli anglosassoni la chiamerebbero narrative non fiction, per i francesi potrebbe essere una autofiction con molte anomalie. In sostanza, è una scrittura basata sull’ascolto, è il resoconto di una testimone che, di pagina in pagina, si sforza sempre più di farsi invisibile. Lo si comprende bene rileggendo nel loro ordine originario i tre libri riunti in Guerre. In La guerra non ha un volto di donna (1985) la scrittrice-intervistatrice ricorre ancora alla prima persona, per quanto sia chiaro che le vere protagoniste sono le combattenti di quella che, nella retorica di regime, è la Guerra Patriottica contro il nazifascismo. Simile, ma non identica è la struttura di Gli ultimi testimoni (1985, qui riproposto nella traduzione di Nadia Cicognini), dove le memorie di quanti erano bambini durante il secondo conflitto mondiale si armonizzano in un coro che sembra prescindere da ogni mediazione. Non è così, come si intuisce dal sottotitolo del libro, “A solo per voce infantile”, nel quale la responsabilità dell’autrice è pudicamente rivendicata. Infine, in Ragazzi di zinco (1991), i due elementi ai quali Aleksievic farà appello durante il processo, «le persone che raccontano e io stessa», si costituiscono in un dialogo serrato, mediante il riaffiorare di appunti e considerazioni personali. Eppure, nonostante tutto, la scrittrice non è mai al centro della scena. A interessarle sono sempre gli altri, l’altro, il 'piccolo uomo' che, con i suoi drammi e i suoi slanci, rappresenta un intralcio insormontabile per ogni versione di comodo patrocinata dal potere. «Dietro le madri intravedo le spalline dei generali », afferma Aleksievic commentando l’andamento del processo, nel corso del quale le stesse donne che poco tempo prima avevano pianto con lei la morte dei propri figli in Afghanistan, le si rivoltano contro in nome della ragion di Stato. Un pregiudizio che riecheggerà e sarà smentito anche nel discorso tenuto a Stoccolma per il Nobel: «Sono stata definita scrittrice delle catastrofi, ma non è vero – ribatte Aleksievic –, io cerco continuamente parole d’amore. L’odio non ci salverà. Solo l’amore. È la mia speranza».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: