venerdì 13 maggio 2022
L’azionista viennese, morto un mese fa mentre si riproponeva una sua installazione del 1987, oggi appare decadente e artificioso nella pretesa d’imitare i rituali religiosi
Un'immagine dell’“Azione” di Hermann Nitsch a Venezia

Un'immagine dell’“Azione” di Hermann Nitsch a Venezia - -

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Mentre di buon mattino il motoscafo su cui siamo saliti ci porta nell’isola della Giudecca perché Zuecca Project Space ha in programma la presentazione alla stampa della mostra di Hermann Nitsch. 20ª Painting Action (fino al 20 luglio), il protagonista ha dato il suo ultimo saluto al mondo il giorno prima. A quasi ottantaquattro anni il 18 aprile è morto in ospedale a Mistelbach, una cittadina della Niederösterreich, l’Austria inferiore, e l’annuncio è arrivato proprio quando a Venezia si apriva questa rassegna che ripropone a distanza di oltre trent’anni una delle sue celebri azioni pittoriche viennesi, la ventesima per la precisione (su oltre quaranta che ha realizzato con performance che, dagli anni ottanta in poi si sono “attenuate” rispetto a quelle che faceva tra anni Sessanta e Settanta ricevendo critiche, denunce, scomuniche degli animalisti, manifestazioni di dissenso perché si svolgevano fra carogne d’animali sacrificati in scena, sangue a profusione, gesti rituali che riproducevano nell’arte certi rituali e strumenti del sacro religioso (per esempio l’ostensorio sull’altare). Soluzioni concepite come una crasi simbolica, un particolare sincretismo in azione delle tante storie “sacrificali” che l’antropologia ha documentato ormai da tempo nei culti più antichi, fino alle teorie più recenti di Walter Burkert su homo necans e di Girard sulla “rivalità mimetica” e il capro espiato- rio, sacrifici che il cristianesimo avrebbe definitivamente superato in quello di Cristo ponendo fine al meccanismo vittimario arcaico. Ma è sotto questo aspetto, forse, che le teorie girardiane mostrano il loro tallone d’Achille, nel quale anche Nitsch entra forse inconsapevolmente col suo “teatro delle orge e dei misteri” – l’Orgien Mysterien Theater a cui si dedicò dalla fine degli anni 50 – che imita il sacro e il mito con il transfert , in realtà progettato, dalla religione all’arte. L’azionista viennese, che è stato per molto tempo la prima star del gruppo austriaco, pare avesse ancora in fieri una messa in scena della wagneriana Valchiria a Bayreuth. Ora, è chiaro che quando uno si trova “dentro” un teatro di Nitsch – le sue performance oggi sono definitivamente consegnate alla sua propria archeologia – viene facile parlare di “opera d’arte totale” e fra un ammiccamento a Schopenhauer e un altro a Nietzsche ecco che la celebre espressione di Wagner trova i suoi presbiteri e si rivolge a noi come se fossimo bramosi catecumeni. È stato definito in tanti modi Nitsch 'pittore del sangue', per esempio, ma anche guru e sacerdote del rito, come nei misteri eleusini egli era lo ierofante che guida l’iniziazione, e là dove il sacrificio antico prevedeva lo sgozzamento del toro Nitsch adotta il capretto alludendo all’origine del teatro tragico come “canto del capro”. Era nato nella città esoterica e decadente segnata dai fasti della Secessione viennese, ma anche quella dello spartachismo socialista, il cui emblema fu l’edificio del Karl-Marx-Hof. Da giovane respirò gli ultimi vapori della Finis Austriae ancora circolanti decenni dopo lo sfaldamento dell’Impero asburgico all’indomani della Grande guerra, quando l’Europa centrale – Austria, Cecoslovacchia e Ungheria – perse la sua propria unità politica, ma – come sostenne Milan Kundera in un breve saggio del 1983 – anche il proprio cuore culturale e ideale (testimoni convocati Kafka, Musil, Broch, Hasek...). In quel saggio, appena tradotto da Adelphi ( Un Occidente prigioniero), Kundera dice che i guai dell’Europa cominciano all’epoca e oggi gli effetti politici di questa “apocalissi culturale” si acuiscono in peggio. Il problema dell’Europa centrale è il problema dell’Europa stessa, insomma, che in nome della democrazia ha dimenticato la sua storia – dalla lunga influenza cristiana alla svolta illuminista degli ultimi secoli – per abbracciare un nuovo culto, quello delle merci e del consumo che schiavizza l’uomo (detto da Kundera che da giovane fu convinto poeta stalinista, è degno di nota). A suo modo, anche Nitsch è un erede di quel lontano crollo dell’impero e celebra nelle sue azioni il sacrificio dell’Europa opponendo alla civiltà tecnologica un ritorno all’arcaico. Mescolando miti greci come Edipo con la Via Crucis cristiana, ovvero le storie dei Nibelunghi e la ricerca di una purificazione del corpo che ricorda miti cruenti e l’ideale spartano della razza eletta (pur senza accreditare visioni ariane, come in un celebre polpettone poliziesco con Jean Reno dal titolo suggestivo pensando a Nitsch: I fiumi di porpora). Capretti sgozzati, viscere sparse sulla scena, mystai che vengono iniziati con sangue animale, tuniche che diventano sindoni del sacrificio, mentre il pubblico si trova proiettato in una tragica cripta dell’origine: come accadde a Trieste nel 1978 al Teatro Romano durante una performance lunga dodici ore. Ecco, nonostante questa sinestesia sacrificale, non credo che si possa usare alla leggera l’espressione Gesamtkustwerk: opera d’arte totale, concetto che risale a qualche decennio prima dello stesso Wagner, il quale legava arte e rivoluzione dentro una retorica dell’estetica culminante nel dramma. La sintesi delle arti che Wagner teorizzò anche con una precisa intenzione rivolta allo spazio collettivo, vale a dire di popolo (forse si ricordò, in un impeto di superamento, della popolarità trasversale del Globe Theatre shakespeariano), era ovviamente una sintesi sensoriale che in Nitsch si realizza grazie ai vapori carnali liberati nell’aria dal sacrificio animale, col battesimo di sangue, con lo shock visivo delle colate sanguinolente che impregnano superfici, pareti, pavimenti, fra oggetti e altari rituali. Una sintesi, dunque, dei cinque sensi: sonora, olfattiva, tattile, visiva, gustativa... il sangue esplode e arriva fin dentro la bocca (in modo meno brutale, nel Globe la gente assisteva e partecipava mangiando e, talvolta, pulendosi le mani unte nei vestiti), Negli anni Ottanta però – forse logorato dai continui scandali delle sue precedenti performance, ma anche credo per un cambio di mentalità con l’avvento del postmoderno –, le azioni di Nitsch diventano quasi esornative. Ora il sangue è “alluso”, colore rosso sparso a fiumi con azioni che si ripetono, ma diventando una sorta di accademia dell’avanguardia (manierismo). Tanto più si percepisce questo salto di qualità rivedendo ora ciò che resta dell’azione numero 20 del 1987, allestita nelle spaziose e compatte Oficine 800. Nitsch aveva appena lasciato questo mondo, ma la sua dipartita suggellava questa strana rimemorazione che rende ciò che voleva essere antiaccademico un oggetto da museo (del collezionista Helmut Essl). La spia di questa artificiosa ricreazione sono le impronte rosse lasciate dai piedi di Nitsch e dei suoi adepti nel giorno della performance. Non procurano lo stesso brivido che si prova vedendo la pittura rupestre nella Grotta delle Mani in Patagonia o in altri siti preistorici. E non riguarda una diversa emozione indotta dalla enorme distanza temporale fra noi e l’uomo antico, ma la verità di un segno che senza tante teorie mostra il nesso effettivo fra arte e religione (di cui ancora non abbiamo completa coscienza). Nella “chiesa” di Nitsch, i cui altari sono il cuore di un enorme spazio-tela che ha condensato tutte le testimonianze storiche del rito, non sembra che l’arte abbia surrogato la religione, anzi; non è l’hegeliana “morte dell’arte” quella che vediamo, ma l’arte morta di un cenotafio, un mausoleo dove essa cerca di riscattarsi simulando lo spazio religioso nella sua brutale ricerca della purificazione. Più di vent’anni fa si tenne al Pac di Milano una mostra intitolata Rosso vivo, che in sostanza riproponeva l’analogia tra colore rosso e sangue. La curatrice, Francesca Alfano Miglietti, intendeva mostrare la tensione morale e rituale degli artisti contemporanei – da Gina Pane, a Orlan, a Serrano, agli esponenti del Post-umano in simbiosi con la macchina – mettendo in luce il martirio del loro corpo come testimone della crisi antropologica indotta dalla hybris tecnologica. Oggi siamo ben oltre ed è il mondo digitale, all’apparenza soft e friendly ma in realtà vòlto a mutare le forme della nostra vita, che attua un martirio dello specifico umano nelle infinite ibridazioni che spaccia come progresso. Di fronte a questa cultura delle chimere, Nitsch perde di forza provocatoria e la sua arte si rivela quasi estetizzante in un mondo dove il potere spinge ogni giorno l’uomo comune a fare seppuku, come un samurai, per non tradire il bene collettivo.

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