domenica 27 ottobre 2019
Parla la monaca eremita: «Il deserto è nelle nostre città, nei cuori inariditi nel miope tentativo di soffocare la chiamata che è di tutti: accogliere e vivere la Parola è la vocazione dell'umano»
Madre Mirella Muià illustra il significato dell'icona del "Cristo Sposo"

Madre Mirella Muià illustra il significato dell'icona del "Cristo Sposo"

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Le cose visibili e le cose invisibili. «La gente di solito cerca quelle visibili, superficiali. Vuole toccare con mano anche quando si tratta della fede. Non è più abituata a cercare il Dio nascosto. L’incarnazione di Dio che è in noi, in ognuno di noi, e che possiamo incontrare facendo un po’ di silenzio, ascoltando il cuore». Nel suo antico eremo, a Gerace, madre Mirella Muià parla indicando alcune delle icone che scrive lei stessa. Si sofferma in particolare su quella del "Cristo sposo", immagine che è Parola del dialogo misterioso fra la Madre e il Figlio risorto, fra la Chiesa e il suo sposo. Il silenzio e l’ascolto: «Sapere ascoltare è cogliere la presenza di Dio in noi e al di fuori di noi. Non c’è un aspetto in cui Dio non è sceso. L’icona della "Discesa agli inferi" lo afferma chiaramente. Questa del Cristo sposo - aggiunge mostrandola nelle sue mani - è il segno dell’unione sponsale che è alla base di ogni vocazione. L’ho voluta nel giorno della mia vestizione di monaca eremita. Fra Maria e Gesù intercorre un dialogo silenzioso che è fondamento di vita religiosa e di vita cristiana».

Madre Mirella vive dal 2002 nell’eremo dell’Unità, affiancato alla chiesa di Santa Maria di Monserrato riedificata dagli spagnoli nel 1636. Qui ci accoglie, attraverso la chiesa, nella cucina-salotto della sua abitazione, fra libri e oggetti d’uso che narrano di cose di tutti i giorni, di cultura e di spiritualità coniugate alla maniera semplice e spontanea che solo può venire dalla piena apertura alla Provvidenza. Mentre parliamo si sente bussare alla porta che separa dalla chiesa: il tempo di alzarsi e di aprire ma già non c’è più nessuno, soltanto un sacchetto a terra, con dentro una bottiglia e varie cose da mangiare. «Ci sono voluti anni per superare la diffidenza delle persone che abitano qui intorno. Ci sono state cattiverie, calunnie. Si è persino arrivati a dire che ero qui agli arresti domiciliari... Ora mi vogliono bene». Mirella Muià è stata consacrata monaca eremita nel 2012 dall’allora vescovo di Locri-Gerace Giuseppe Fiorini Morosini. Oggi è un riferimento per la diocesi, spesso chiamata per ritiri ed esercizi spirituali. La sua è una storia complessa e affascinante insieme, caratterizzata da una evidente vocazione monastica, prima tradita e poi accolta in età matura. In mezzo c’è una carriera universitaria alla Sorbona, dove è stata ricercatrice di Letteratura comparata dal 1977 al 1989, un matrimonio civile sùbito finito, una figlia che ora ha 47 anni e fa la volontaria in Amazzonia, una dura malattia, una progressiva discesa nell’abisso, al cui fondo, come negli inferi dell’icona, ha trovato Cristo che l’ha abbracciata e l’ha fatta risorgere. Del resto, ama ripetere, «le icone, così come la Scrittura, sono racconto della nostra vita quotidiana».

Lei è calabrese?

Sono nata a Siderno e sono emigrata a Genova con la mia famiglia da piccola. Dopo la laurea sono andata prima in Germania e poi a Parigi. Alla Sorbona mi sono trovata a lavorare fianco a fianco con alcuni fra i più importanti pensatori del secondo ’900 come Paul Ricoeur, Emmanuel Lévinas, Tzvetan Todorov, Alain Finkielkraut. Ero affascinata dalla loro ricerca di senso e dalla austera semplicità con cui la perseguivano, in particolare Todorov, del quale mi ha colpito, dopo la sua morte, l’aver scoperto che era tornato all’originaria fede ortodossa. Come loro anche io cercavo il senso seguendo strade lontane da Gesù e mi sentivo sempre più arida, morta dentro.

Come si è manifestata la vocazione?

A Genova, fra i 12 e i 15 anni sentivo fortemente la chiamata alla vita monastica. Ogni pomeriggio, dopo la scuola, salivo sul monte di Quinto. Mi arrampicavo fra le rocce fino a una piccola grotta dove scrivevo, disegnavo. Ero molto colpita dalla sofferenza intorno a me e in quei pomeriggi di silenzio raccoglievo quelle voci del dolore e meditavo. Non volevo sposarmi ed ero orientata verso la certosa. Poi lo scandalo della sofferenza mi ha fatto sorgere una serie di domande idealiste. Mi chiedevo se Dio davvero volesse il mio ritiro in un luogo privilegiato senza fare nulla di concreto per risolvere i problemi delle persone. Come si poteva restare a guardare? Erano domande di un’adolescente mossa da grandi ideali. Era anche l’influenza delle persone che mi vivevano intorno. Non ho avuto il coraggio di essere diversa. Così ho respinto la mia vocazione, sono andata contro me stessa. E stato quasi come un suicidio, un fenomeno di morte interiore e mi sono buttata nello studio, cercando senso nell’arte e nella cultura.

Dopo il rifiuto di Dio quando è arrivato il desiderio di riaccoglierlo?

Questa situazione di morte interiore è esplosa nell’87. Venivo da un matrimonio fallito appena iniziato. Avevo avuto un tumore dal quale ero uscita con fatica. Piano piano ero caduta in un abisso. Ero spinta dal desiderio di aiutare, ma in realtà ero io ad aver bisogno di aiuto. A un certo punto, toccando il fondo, in totale solitudine, mi sono resa conto che a sostenermi c’era proprio lui: quel Dio che avevo rifiutato e che era rimasto nascosto dentro di me era il mio fondamento. Poi mi sono trovata fra le mani la vita di santa Teresa d’Ávila e ho capito che davvero mi veniva chiesto di tornare al primo amore. Da quel momento l’esperienza del Dio nascosto che attende di essere ascoltato non mi ha più abbandonato.

Quando ha imparato a scrivere icone?

Proprio in quei mesi ho sentito il desiderio di iscrivermi a un corso di iconografia. Era l’autunno del 1987. Il corso era tenuto dal gesuita tedesco, storico dell’arte bizantina, Egon Sendler, nella casa di Jaques Maritain, dove c’era sempre la moglie ad accoglierci. Anche questo era un segno. Lì ho fatto esperienza del cristianesimo orientale, ho imparato l’importanza di percepire la bellezza nella sua profondità, di incontrare il volto di Dio. La bellezza, anche la più umile, ha una sua interiorità che conduce a Dio. Per questo bisogna ripartire dal bello che è nelle cose di tutti i giorni perché sono piene di presenza. E le Sacre Scritture parlano proprio di questo.

Poi il ritorno in Calabria e in questo eremo che è stato una delle culle del monachesimo orientale.

A quel punto ho subito capito che dovevo ricominciare dalla mia vocazione al monachesimo e che la mia terra d’origine, la Calabria, era il luogo giusto per coniugarla con la spiritualità orientale. Ho capito che la mia era una chiamata ecumenica. La Chiesa è il corpo del Risorto, ma è ferito. Io dovevo vivere l’unità della Chiesa e le ferite delle divisioni. La Calabria è stata per secoli la terra dei monaci del deserto in fuga dall’Africa e dall’Oriente. Questo eremo, che mi è stato affidato dall’allora vescovo di Locri-Gerace Giancarlo Bregantini (quando sono arrivata qui, immaginate lo stupore, mi sono resa conto che nel mio studio a Parigi, per ricordare la mia terra, avevo messo una fotografia in bianco e nero che ritraeva proprio questo luogo) un tempo era una 'Cattolica', cioè il luogo dove i monaci eremiti della zona si riunivano per la veglia del sabato sera e le celebrazioni domenicali.

Come i monaci del deserto?

Oggi il deserto è il nostro mondo. Non c’è bisogno di cercarlo fuori, è nelle nostre città e il monachesimo porta un respiro di vita battesimale. Di questo ha bisogno la gente. Questo la riavvicina. Il mio compito, il nostro, è ascoltare, aiutare a riscoprire la vocazione che è nel loro cuore. Insieme con loro riscopro le Scritture in quanto vita concreta che parla al cuore, che parla di noi. Attraverso le Scritture il Signore consegna se stesso, non delle idee. Le Scritture sono la chiave del suo cuore. Noi dobbiamo fare altrettanto con le persone: non trasmettere idee, ma la pienezza del Signore nella nostra vita.

Ecco che si torna all’ascolto interiore...

È la vocazione umana, la chiamata di tutti: diventare l’Arca dell’alleanza. La gente non lo sa ma viene qui per questo. E Maria è un riferimento concreto, lei è l’icona della nostra vocazione che è ricevere il Verbo, accogliere la Parola e viverla in sé. Questa è la vocazione dell’umano.

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