martedì 23 febbraio 2021
Il poeta, scrittore ed editore era nato nel 1919. Il suo nome resta legato al movimento letterario degli anni 50 e 60
Lawrence Ferlinghetti davanti alla sua libreria a San Francisco

Lawrence Ferlinghetti davanti alla sua libreria a San Francisco - Stringer/File Photo

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È morto Lawrence Ferlinghetti all’età di 101 anni. L’altro ieri, lunedì 22 febbraio, a San Francisco, città simbolo della controcultura, a causa di una malattia polmonare, secondo quanto ha riferito il figlio Lorenzo. Storico editore e libraio di City Lights (che pubblicò Howl, Urlo, di Allen Ginsberg e si beccò una condanna per oscenità), ultimo baluardo di quel movimento poetico eversivo e disarticolante che è stata la Beat Generation, Ferlinghetti era nato nel marzo del 1919 a Yonkers, nello Stato di New York. Evidenti i geni italiani (per parte di padre; la madre era invece di origini franco-portoghesi). Dopo un’infanzia turbolenta trascorsa in Francia, Lawrence fa ritorno con la zia negli Stati Uniti. Studia alla Columbia University, si arruola nella marina (come successivamente farà nientemeno che Thomas Pynchon), dopo la terribile esplosione di Nagasaki diviene convinto pacifista. A seguito di un incontro decisivo (con il poeta Kenneth Rexroth) durante il dottorato alla Sorbona, si reca a San Francisco in California, che sarà il suo regno assoluto fino agli ultimi giorni. Ferlinghetti – little boy simbolo dell’editoria indipendente, voce del disarmo ed emblema del mondo beat assieme a Kerouac, Ginsberg e Corso – è stato innanzitutto un poeta. Forse il più convincente della sua generazione, sicuramente il meno adatto a essere etichettato. Versi attorcigliati e netti, pensieri caustici e dolci, lieta sofferenza: Ferlinghetti è il poeta delle antinomie e di un anarchismo religioso eclettico che considera la figura di Gesù e tiene in serbo le massime orientali. La sua lirica è impregnata di un misticismo cosmico, universale (molto simile a quello di Gary Snyder) che penetra nei tessuti dell’essere fino a mostrarne i legami. Diversamente dal caos esplosivo di Ginsberg, Ferlinghetti mostra un tono più prudente e controllato nel raggiungere la giusta misura poetica. La sua concezione politica e filosofica si riflette in una assoluta tensione alla libertà, che va al di là di ogni cultura e ogni divisione di genere. La sua vocazione di editore, peraltro, lo ha portato a considerare le diverse voci della letteratura con una delicatezza e una capacità di scandaglio davvero singolari; l’indipendenza da ogni visione ideologia e prospettica – o, meglio, l’inappartenenza – è il conseguimento di un orizzonte antidottrinario (un po’ come il nostro Eugenio Montale) sono state le cifre uniche della sua attività di letterato tout-court. Autore di autentici best-seller poetici (A Coney Island of the Mind è stato tradotto in nove lingue) ma anche romanzeschi (ha scritto due novels), amico di Fernarda Pivano che fu anche sua traduttrice, Ferlinghetti è stato variamente tradotto nel nostro Paese: una ventina di titoli in tutto, tra i quali ricordiamo almeno Scene italiane. Poesie inedite (Minimum Fax, 1995), L’amore nei giorni della rabbia (Mondadori, 1999), Il lume non spento (Interlinea, 2008) e la raccolta antologica Poesie (Guanda, 2005). La sua fortuna non ha subito punti opachi e c’è da credere seriamente che l’opera non scompaia con il personaggio. Soprattutto se i versi sono di questo tenore: «Un sole che tramonta / tiene a bada la notte / tutto questo sospeso nel tempo / l’universo trattiene il suo respiro / c’è silenzio nell’aria / la vita pulsa ovunque / la cosa chiamata morte non esiste».

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