venerdì 17 dicembre 2021
Una mostra sul gruppo che fondò in Ticino un’isola di benessere psichico e fisico. Vegetariani, salutisti, anarchici che attirarono ad Ascona anche grandi nomi della cultura
Una sala della mostra a Firenze dedicata al Monte Verità

Una sala della mostra a Firenze dedicata al Monte Verità - -

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La mostra che si è aperta da un mese al Museo del Novecento di Firenze, intitolata Monte Verità. Back to Nature (fino al 10 aprile), non è accompagnata, per ora, da un catalogo. Ce l’avrà, ma intanto chi visita la mostra non ha quasi nessun strumento per orientarsi, salvo le bacheche appese alle pareti e le scritte sui vetri del chiostro che riproducono frasi di Harald Szeemann, il critico d’arte svizzero che rilanciò quell’esperienza d’inizio Novecento. Il visitatore deve cioè arrivare all’appuntamento con una infarinatura di idee sufficiente per afferrare i contenuti di una mostra che mette in scena le idee e le realizzazioni di quella strana comunità di utopisti, il cui periodo fondativo va dal 1900 al 1920. La sua storia prosegue poi anche dopo la Seconda guerra mondiale in una sorta di “normalizzazione” da offerta turistica, quale ancora oggi si prefigura nella pubblicità della Fondazione omonima. Diciamo subito che l’usanza di pubblicare il catalogo di una mostra quando ormai si è inaugurata da molto o sta addirittura per finire è una usanza snobistica. In passato i cataloghi erano umili, anche quando sontuosi, strumenti dove si dava ragione delle scelte critiche, si ricostruivano percorsi storici, si rendevano note scoperte importanti. A mostra chiusa si può aggiungere tutto quello che si vuole, ma si tratterà di libro e non di catalogo. Sergio Risaliti, il direttore del Museo, ha invece adottato la linea del catalogo “postumo” e mai come in questo caso, col Monte Verità, la scelta pare poco ragionevole. Perché dico questo? Perché la mostra legge l’esperienza del Monte Verità come un emblema di quella spinta utopica e anarchica che potrebbe appunto riassumersi nell’idea di Lebensreform, la riforma della vita promossa da un gruppo di giovani che volevano evadere da un mondo dove la rivoluzione industriale, la perdita della tradizione artigianale, la distruzione della natura, l’etica repressiva dei padri e, più in generale, il sentimento della crisi di valori di un’epoca retta dal conservatorismo sarebbero sfociati nella Grande Guerra e poi avrebbero aperto la strada ai regimi autoritari. Sono stati definiti anche hippy ante litteram. Erano figli di una borghesia e aristocrazia europea che stava fallendo il suo compito storico: Ida Hofmann era una pianista e pedagoga tedesca, molto attiva nel rivendicare il diritto delle donne, Henri Oedenkoven veniva da una famiglia di industriali olandesi, i fratelli Gräser erano originari della Transilvania: Gustav poeta e pacifista, Karl militare austriaco. Le circostanze della vita li unirono tutti in una scommessa utopica tesa a recuperare un ideale di vita puro ed erede della cultura romantica: uno stabilimento vegetarianonaturista. Sul Monte Monescia, ad Ascona, che ribattezzarono Monte Verità, volevano ricreare percorsi esistenziali alternativi. I modelli della loro comunità potrebbero trovarsi nella Theleme immaginata da Rabelais o nella comunità dell’utopista Fourier, che inventò i falansteri dove si praticava una vita comune molto libera e disinibita. Il comandamento per tutti era: nessuna costrizione. Francamente, parlare – come fanno i responsabili del Monte Verità sul loro sito internet di «una comunità cristiano-comunista», mi ha fatto fare un salto sulla sedia. Si possono scrivere tante cose e metterle sotto il cappello cristiano – il rispetto della natura, la tutela della dignità femminile, la ricerca del benessere umano, della bellezza, il valore dell’arte e della creatività, il senso mistico della danza – ma si tratta anche di vedere come questi principi vengono affermati. Risaliti ha dichiarato in occasione dell’apertura della mostra che «termini come “vegetariano”, “pacifismo”. “sostenibilità” sono imperativi categorici nell’evoluzione della nostra civiltà, il Monte Verità torna a esse- re un riferimento per quanti non s’accontentano dell’inerzia politica e del cinismo sempre più disastroso dell’economia globale». Una parola chiave del Monte Verità era rinunciare: abbigliamenti spartani, abitazioni che erano simili a capanne immerse nel bosco (in mostra c’è anche un modellino in scala e “la sedia dei vegetariani” fatta con rami intrecciati); era vietato l’uso di stimolanti che avessero effetti tossici (alcol, caffè, tè, tabacco), anche il sale era malvisto. Al bando salumi, formaggi grassi, carni e, ovviamente, vino. Una società di vegani, insomma. Qualcuno degli ospiti però trasgrediva e i custodi del tempio poi ritrovavano in un angolo resti di queste consumazioni proibite. In parte contraddicendosi, il sito della Fondazione premette che «questi riformatori cercavano una terza via tra il blocco capitalista e quello comunista», e qui bisognerebbe dire che quello che accadeva al Monte Verità era nell’aria un po’ ovunque in Europa, basterebbe leggersi il libro di Jean Louis Loubet del Bayle sui «non-conformisti degli anni Trenta», che ricostruisce la genesi di un dibattito fin dai primi decenni del secolo, per capire che era una urgenza diffusa e forse proprio da questo retroterra di discussione si possono intuire le cause delle svolte autoritarie in Europa, argomento più che mai attuale e degno di essere ripreso al di là delle questioni legate alla pandemia; allora bisognerebbe rileggersi anche le riflessioni di Mounier nel saggio Dalla proprietà capitalista alla proprietà umana, dove si auspica una terza via che relativizza il diritto della proprietà privata (ma le idee del pensatore francese forse avrebbero irritato gli stessi fondatori del Monte Verità perché la critica della proprietà privata implica anche la messa in discussione della propria anarchia, della propria libertà assoluta). I fondatori erano dunque ricercatori di una purezza delle origini, di un’età adamitica. Vivevano un rapporto simbiotico con la natura, e i punti fondanti erano il vegetarianismo e il diritto della donna – temi molto vivi nella letteratura moderna, per esempio negli studi del sulfureo Robert Eisler, che in un libro bizzarro ma geniale, L’uomo lupo, interpretò il dilagare della forza e della violenza nella storia come una conseguenza del passaggio dal modello dell’uomo frugivoro, che si affida alla dieta vegetariana, a quello dell’uomo carnivoro; così, nelle ricerche di Marija Gimbutas sul matriarcato primitivo soppiantato con le invasioni indoeuropee dal modello patriarcale.

Danze al Monte Verità

Danze al Monte Verità - -

Il paladino del Monte Verità fu proprio Szeemann che ad Ascona ebbe un’illuminazione esistenziale e nel 1978 organizzò una mostra itinerante, i cui materiali oggi sono esposti all’interno del Monte nel Museo Casa Anatta. Per Szeemann il Monte Verità fu come scoprire il tempio della nuova religione, alimentata dalle «mammelle della verità »: l’anarchia, la riforma del corpo e dello spirito (teosofia e danza), la psicoanalisi («al servizio della rivoluzione sessuale»), arte e letteratura. Il Monte Verità come «somma di ideologie innestato in un paesaggio materno». Ma le mammelle di cui parla Szeemann non appartengono a una sorta di Artemis Efesia del nostro tempo: questa, semmai, ha l’aspetto crudele della società del consumo che abbiamo creato, rispetto alla quale, forse, lo stesso Risaliti rilancia l’imperativo “rinunciare” – fino a qualche anno, sulla scorta di Latouche, si parlava di decrescita. L’immagine intitolata Gioia nella libertà, una foto anonima del 1904 con cui si apre la mostra, ci presenta un uomo nudo, dal fisico armonico e giovane, mentre, con le braccia alzate, guarda l’orizzonte montano di fronte a sé; eppure, questo senso naturista della libertà, ai miei occhi non ha lo stesso valore “rivoluzionario” del gesto che il figlio del mercante Pietro di Bernardone fece davanti alla sua città denudandosi sulla pubblica piazza per scegliere la povertà e la rinuncia. Anche lui fondò una piccola comunità, si vestirono di tela ruvida, andarono per le strade a predicare la Buona Novella e la fama di Francesco ebbe i suoi effetti “politici” sulla stessa Chiesa e sui potenti della terra. Fino a oggi. Senza voler ridurre il messaggio di quel naturismo vegetariano e matriarcale, anarchico e libertario, edonista e salutista, contrario all’imbrutimento del lavoro, ma anche considerando che l’infatuazione di Szeemann ha alla radice una scontentezza esistenziale e la volontà di trovare una “religione” a cui votarsi (non è forse superfluo sottolineare l’influenza che ebbe sul mercato dell’arte come curatore di alcune edizioni di Documenta e della Biennale di Venezia, dunque partecipe del versante capitalista che oggi ha raggiunto livelli inverecondi); ecco, Monte Verità – nonostante i nomi di spicco, da Hesse, a Isadora Duncan, Hugo Ball, Marianne von Verefkin e Jawlensky, Buber, Remarque, Jung, Klee, Max Weber, Rudolf Steiner e molti altri – può essere oggi, e forse lo è, un elegante resort dove si fanno bagni di sole, si medita e ci si riposa a prezzi forse un po’ sostenuti in una sorta di sintesi fra convento e sanatorio contro il logorio della vita moderna. Le mammelle della verità hanno partorito qualcosa che aveva strane analogie col culto del corpo umano che piacque poi, piegandolo alla propria ideologia ariana, anche al nazismo e, in tempi a noi più prossimi, ai fautori della ormai tramontata religione dell’acquario. Farne un modello attuale mi pare superfluo.

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