venerdì 22 maggio 2020
Esce in libreria “Storia di un boxeur latino” in cui il "documentarista" ripercorre 60 anni di carriera, passando dalle Olimpiadi ai Mondiali di calcio alla sua leggendaria intervista con Fidel Castro
Il giornalista scrittore e documentarista Gianni Minà (ultimo a destra) assieme ai campioni dell’atletica Tommie Smith, Pietro Mennea e Lee Evans

Il giornalista scrittore e documentarista Gianni Minà (ultimo a destra) assieme ai campioni dell’atletica Tommie Smith, Pietro Mennea e Lee Evans - Archivio

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«Gianni Minà… voi già lo sapete che cosa voglio dire: io lo invidio. Lo invidio per la sua agendina telefonica…». Cominciava così l’esilarante gag televisiva di Massimo Troisi invitato da Minà ad Alta classe, il programma del martedì sera di Rai1 (1992) in cui per dodici settimane chiamò sul palco de La Bussola Renzo Arbore, Vittorio Gassman, Gino Paoli, Paolo Villaggio, Pino Daniele…E la lista la chiudiamo qua, altrimenti si rischia di replicare l’altra gag, quella di Fiorello a Viva Radio2 quando imitando Minà attaccava con l’improbabile lezione di pugilato a Fidel Castro a Cuba nei magnifici anni ’60: «C’eravamo io, il Leader Maximo, Compay Segundo, Adelio Moro, Mario e Pippo Santonastaso… ».

“Diderotiano” Minà, il più enciclopedico dei narratori televisivi, bracconiere di storie umane e di sport, come pochi altri avvistati a queste latitudini. Prove e testimonianze si ritrovano nella sua romantica e nostalgica autobiografia Storia di un boxeur latino (minimum fax. Pagine 232. Euro 16,00) scritta con la complicità di Fabio Stassi). Titolo – tratto da una dedica che gli fece Paolo Conte – con dentro una miriade di aneddoti, interviste e incontri con personaggi storici di primo piano (capi di Stato, rivoluzionari alla Subcomandante Marcos, Nobel per la pace come Rigoberta Menchu) ma anche comparse degne di un romanzo del suo amico scrittore (uno dei tanti, con Eduardo Galeano, Jorge Amado. Il libro è dedicato alla memoria di “Lucho” Sepúlveda), l’argentino Osvaldo Soriano: tipo lo zio Peppino, partito sul fronte russo da «cosacco del Don», sposato alla finlandese Aino Kirialainen con la quale dopo essere tornato nella materna Sicilia migrò in America.

Un memoires scanzonato, a tratti commovente (specie nei ricordi familiari: il fascismo e l’antifascismo vissuto durante lo sfollamento a Brusasco), che andrebbe studiato nelle scuole di giornalismo, perché dentro a questo libro c’è tutta la passione, la curiosità e quell’infinito «stupore» che dovrebbe ancora suscitare nei giovani la vocazione per il mestiere. Quello stupore è la scintilla sempre accesa, dietro quei suoi occhialini gramsciani, che ha animato sessant’anni di viaggio ininterrotto, dentro la Storia. Una partenza rapida da giornalista sportivo, nel 1959, i primi articoli il ventenne Minà (classe 1938) li firma per Tuttosport di cui poi sarebbe diventato direttore, alla metà degli anni ’90, riuscendo perfino «a far scrivere Mina di boxe». Una vocazione olimpica dicevamo, nata in famiglia, con un papà arbitro di calcio e segretario della Lega di serie D. Segno premonitore: l’insaziabile fame di seguire a ruota, con la fantasia, i «miti», Bartali e Coppi. «La radio non aveva terminato il collegamento che io avevo già trascritto l’ordine d’arrivo della tappa e la classifica generale. È questo il mio primo ricordo di una carriera».

Per scrivere e raccontare su carta e poi sullo schermo le miserie e gli splendori del continente latinoamericano, l’anarchia del jazz e l’epica del riscatto attraverso il pelide Pietro Mennea, c’è voluta una formazione salesiana (cresciuto sotto la guida di don Pietro Rota), gli studi al Liceo D’Azeglio e infine l’incontro con «quattro “maestri» a indicargli la via. Il primo maestro, un uomo della strada, conosciuto alle case popolari di via Monte Grappa in cui, Gianni, figlio di siciliani – sangue misto a piemontesi – , conobbe il sardo Giovanni Pische: carismatico reduce di guerra finito in carrozzina, ex atleta e precursore di quello sport Paralimpico che fiorì alle Olimpiadi «più umane» di Roma 1960.

Gli altri tre maestri sono stati i suoi mentori professionali: Sergio Zavoli, Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson. Quest’ultimi, due intellettuali di rara profondità: da Ghirelli ha appreso l’analisi storica e l’artigianato della scrittura giornalistica, da Barendson la brillantezza nel raccontare lo sport a cui «Maurizio applicava le tecniche della cinematografia che conosceva bene». Con Barendson, debutta in tv nel rotocalco Rai Sprint e scopre la sua vera anima: quella del «documentarista».

Minà ha fatto la storia della televisione, «anche se nessun manuale mi cita», lamentava in una intervista a Elvira Serra sul Corriere della Sera. Con Blitz, nel 1981, ha inventato il genere dell’intrattenimento domenicale in cui sport e spettacolo per la prima volta si scambiavano la maglia. Ma è con i documentari che è diventato celebre nel mondo. Le 16 ore di intervista a L’Avana con Fidel Castro (nel 1987) restano un record che va oltre i Caraibi, come ironizzava il Leader Maximo cubano, e il premio che gli ha tributato vent’anni dopo la Berlinale (Kamera alla carriera) per Cuban Memories rappresenta il suo Oscar personale.

Minà l’amico dei premi Oscar, Sergio Leone e Robert De Niro, riuniti con il Nobel per la letteratura Gabriel Garcia Márquez al tavolo del ristorante romano Checco er Carrettiere. Ma tutti erano accorsi perché quella sera passava da Roma ospite della trasmissione di Minà e poi a cena, “The Greatest”, Muhammad Ali. In quella fotografia tra i giganti scorre tutta la sua vita e la filosofia del giornalista a tutto tondo. Una voce a volte scomoda, in fuga dall’Argentina di Videla per aver osato indagare la tragedia dei desaparecidos un anno prima del Mundial del ’78 (dove poi non fu inviato), consapevole che la differenza sta nell’essere al posto giusto al momento giusto. Arrivarci con un taccuino o con una squadra di tecnici (cameraman, fonico, elettricista) fidati per documentare in presa diretta i fatti mentre accadono, nell’attimo esatto in cui la storia si fa raccontare.

Questo è stato l’avventuroso e fantastico lavoro di Minà che ha corso veloce per il pianeta sferragliando, sulla tastiera, come la locomotiva umana Zatopek, guidando una Seicento del fratello Enzo in cui ha scarrozzato i Beatles, per arrivare al traguardo colorato dei muralisti messicani nella piazza delle Tre Culture. Olimpiadi di Città del Messico 1968. L’anno spartiacque del ’900: «La Primavera di Praga, il massacro di My Lai in Vietnam, l’uccisione di Martin Luther King e il maggio francese».

Il freelance che si pagò la sua prima trasferta ai Giochi dormendo nella palestra del «patriarca della boxe messicana Salvador Lutteroth» è stato testimone (come Oriana Fallaci che rimase ferita negli scontri di piazza) del “massacro di Tlatelolco”. Giovani ribelli, per lo più studenti, uccisi dai militari e portati via nei camion della spazzatura, due settimane prima che sul podio olimpico si accendesse la brace della “rivolta black”: il pugno levato al cielo dagli americani Tommie Smith e John Carlos con l’australiano solidale, e dissidente quanto loro, Peter Norman. «Quella foto fu la nostra trinità, scalza e laica. Quel giorno venne da piangere a tanti di noi. Non eravamo ancora abituati all’esibizionismo di adesso. In ogni gesto contava ancora soltanto il significato».

L’onda anomala e rivoluzionaria del ’68 spirò da Montezuma fino a Roma e la portò con sé nella valigia di ritorno, riaperta assieme all’allegra e poetica brigata brasiliana, introdotta in Italia dalla voce omerica di Giuseppe Ungaretti. Che «la vita amico è l’arte dell’incontro », Minà l’ha sentito pronunciare dalla viva voce di Vinicius de Moraes con il quale ha brindato, cantato e tirato a notte fonda assieme alla banda della bossa nova, Toquinho, Gilberto Gil, Cateano Veloso e Chico Buarque. Mai desafinado («stonato») il cantore del pugilato e del calcio, che però la Rai come primo incarico da cronista, lo inviò tra le macerie del terremoto del Friuli, nel 1976.

Non sapevano ancora che quel ragazzo dai modi rassicuranti e il baffetto stropicciato, in qualsiasi luogo lo avessero spedito sarebbe stato capace di entrare in contatto con i personaggi più disparati e di inoltrarsi fino alle foreste dei Lacandoni. Con il pretesto di seguire il vaticanista Marco Tosatti (fratello di Giorgio) volò in Uganda al seguito del viaggio di papa Paolo VI. Ha accompagnato l’ex Cassius Clay nel trionfo con George Foreman sul ring dell’epico match di Kinshasa (ex Zaire ora Congo), per poi presentarsi con il redivivo Muhammad Ali da papa Wojtyla: «Per diverso tempo quell’incontro tra un Papa conservatore e un campione di boxe musulmano militante sarebbe stato l’argomento di punta dei salotti romani del cinema».

Si torna sempre sul grande schermo con Minà per assistere al docufilm Papa Francesco, Cuba e Fidel. Solo lui e Kusturica sono riusciti a marcare “El Diego”: lo ha visto segnare con la mano de Dios all’Inghilterra, alzare la Coppa del Mondo sotto un cielo di Messico e nuvole dell’estate 1986, eternandolo in Maradona, non sarò mai un uomo comune. Il segreto di Minà? Aver avvicinato le stelle più luminose e irraggiungibili con lo sguardo curioso e le domande dell’uomo comune, tenendo a mente la lezione di Soriano: «La ricostruzione di una vita altrui è insensata quanto la trama di un’autobiografia. In fondo, l’una e l’altra sono la stessa cosa».

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