domenica 16 gennaio 2022
Due opere aiutano a riscoprire e rivalutare il poeta e drammaturgo lituano-francese. Fece interagire il pensiero ermetico di Swedenborg con quello di Einstein
O. V. de L. Milosz (1877-1939)

O. V. de L. Milosz (1877-1939) - WikiCommons

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«Figlio mio, rileggi l’Epistola a Storge. E ricorda che bisogna aver cura degli esseri e delle cose: perché tutto, dalle pietre fino a Cristo, tutto fa parte del tuo sangue. Sole e atomo, tutto il movimento è vita e amore, creazione di spazio-tempo-materia», scrive Oskar Wladyslaw Milosz (1877-1939), che dal 1931, naturalizzato francese, assume il nome di Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz, firmandosi nei suoi lavori come O.V. de L. Milosz. Fino a qualche tempo addietro il lettore italiano disponeva di ben poca produzione di questo scrittore difficile da incasellare. Un’antologia di poesie, Sinfonia di novembre (Adelphi), e i drammi Miguel Mañara, Mefiboseth e Saulo di Tarso ( Jaca Book) bastavano per attribuirgli troppo facilmente le definizioni di poeta o drammaturgo. E poeta e drammaturgo lo è certamente stato. E tale si è sentito Milosz. Basti considerare il suo rammarico quando André Gide aveva escluso i suoi versi da un’antologia dedicata alla poesia francese contemporanea. Già, perché malgrado non esitasse a cantare le sue lontane origini baltiche e dopo la prima guerra mondiale si fosse fatto carico di rappresentare in seno alla diplomazia la nuova repubblica lituana, Milosz per tutto il corso della vita aveva adottato come propria lingua il francese. Ma Milosz è stato molto altro. Romanziere, custode di tradizioni lituane, scrittore politico, esegeta e a suo modo filosofo, percorrendo nel corso della vita un cammino che lo avrebbe condotto dalla passione per l’ermetismo ad abbracciare le fede cattolica, testimoniata sia dai suoi versi più tardi sia dagli scritti filosofici. La lettura angusta fin qui adottata in Italia del cammino di Milosz lascia ora lo spazio a un’interpretazione più distesa, che restituisce tutta la complessità di questa figura eterodossa di artigiano della parola, lituano ma di lingua francese. Questa possibilità è data dal lavoro meritorio delle edizioni Medusa. In meno di dodici mesi, hanno reso disponibili in italiano dei testi che cominciano a restituire un’immagine a tutto tondo di Milo- sz. Se all’inizio di quest’anno era stata pubblicata La chiave dell’Apoca-lisse, a poco tempo di distanza l’uno dall’altro sono usciti L’amorosa iniziazione (pagine 182, euro 18,50) e il recente Ars Magna (pagine 88, euro 14), il primo con l’introduzione di Pasquale di Palmo, il secondo curato da Laura Madella e con una postfazione di Riccardo de Benedetti. L’amorosa iniziazione e Ars Magna, e in particolare il secondo, scalfiscono a fondo l’immagine del poeta dal gusto simbolista in cui si è tentato di rinchiudere il poeta lituano di lingua francese. Entrambi i testi hanno a tema l’amore seppure declinato in termini, o forse sarebbe meglio dire angolature, diversi. Il primo è un romanzo che risale al 1910, e più che un racconto d’amore è un racconto sull’amore, scritto come una queste all’insegna di una tradizione che risale a Emanuel Swedenborg ma non solo. Esso traccia il cammino, irto di fraintendimenti, che conduce all’appropriazione o alla disappropriazione di sé. L’altro testo del 1924, da cui sono tratte le righe citate in apertura, rientra appieno tra le opere cosiddette filosofiche di Milosz. Anche Ars Magna pone al centro l’amore, seppure attinto da una prospettiva più ampia, metafisica, per non dire cosmologica. Lo conferma la prima parte del testo, redatta nel 1916 e pubblicata separatamente nel 1917 e scritta sotto forma di lettera rivolta a Storge, uno dei molti nomi con cui i greci riconoscevano l’amore, e in particolare l’amore familiare. Per Milosz è «l’accordo umano perfetto, formato dall’attraente saggezza dello sposo e dalla gravitazione amorosa della sposa, dall’autentica situazione spirituale dell’uno nei confronti dell’altro, arcano essenziale, così terribile bello che mi riesce impossibile, dal giorno in cui vi penetrai parlarne senza versare un torrente di lacrime», sostiene, richiamando l’esperienza mistica che lo colse la notte del 14 dicembre 1914 e da cui muovono queste pagine. Questa riflessione nasce dall’esigenza di sottrarre la parola amore «all’ignoranza e alla volgarità delle epoche che ci separano dal medioevo». Sia in questa prima parte sia nelle parti successive, chiamate dall’autore poemi, Milosz costruisce un cammino in cui il pensiero ermetico e in particolare quello promosso da Swedenborg entra in stretta corrispondenza con quanto sviluppato da Albert Einstein. E a cui sarebbe il caso di affiancare, come sottolinea giustamente de Benedetti nella postfazione, Henri Bergson e forse anche la Simone Weil, cantrice dell’amor fati. Per cosa è infatti l’amore di Milosz? Per quel movimento, il movimento che tiene insieme tutto l’essere, che sposa tempo e materia, e grazie al quale l’uomo si reintegra nella totalità, entrando in consonanza attraverso il ritmo. «Voi, Storge, voi sapete adesso che la materia che noi abbiamo riconosciuto infinita è un Assoluto dell’Immobilità e che è situata solo in relazione all’amore onnisciente. E sapete anche che il nostro pensiero, la nostra via nello spazio descrittibile non è che una constatazione, è un amore del movimento e che l’espressione suprema di questo amore in arte è il ritmo che scaturisce senza interruzione ed eternamente insoddisfatto».

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