giovedì 8 aprile 2021
A duecento anni dalla nascita il grande poeta francese rimane il termine di paragone per una modernità che risulta ancora nostra contemporanea
Émile Deroy, “Ritratto di Charles Baudelaire”, 1844. Versailles, Musée de l’Histoire de France

Émile Deroy, “Ritratto di Charles Baudelaire”, 1844. Versailles, Musée de l’Histoire de France - -

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Nel grande come nel piccolo, con Charles Baudelaire non si finisce mai di fare i conti. Lo si intuisce già a colpo d’occhio, mettendo a confronto due delle novità editoriali che contrassegnano il bicentenario della nascita del poeta. Uno dei libri si concentra sulle cento parole essenziali per districarsi nell’opera di Baudelaire. L’altro volume ha una mole più che decuplicata rispetto al precedente, quasi a rappresentare una «foresta» (termine squisitamente baudelairiano, basti pensare alle «foreste di simboli» evocate in Corrispondenze) nella quale non ci sono scorciatoie. Volete leggere I Fiori del male? Allora leggeteli tutti interi: l’originale e la versione italiana, i testi censurati e i frammenti incompiuti, i documenti poi confluiti in altri libri, le prefazioni mai andate in stampa. Anche in poesia, però – anzi: specialmente in poesia – macrocosmo e microcosmo sono in tensione, non in opposizione. Si interrogano a vicenda e, insieme, permettono di inoltrarsi in quella che Giuseppe Montesano definisce la «dialettica non conclusiva» caratteristica di Baudelaire.

Un attraversamento interminabile, nel corso del quale può anche capitare di domandarsi se in quel titolo semplicissimo e terribile, I Fiori del male, non manchi qualcosa. Una maiuscola, per esempio. Perché il Male ha una solennità metafisica che ai nostri piccoli mali fa difetto e senza la quale, sostiene Carlo Ossola, è ancora più difficile misurarsi con questo poeta che da duecento anni non smette essere moderno. Professore al Collège de France e firma abituale di “Avvenire”, Ossola è l’autore del Baudelaire microcosmico, ovvero Les 100 mots de Baudelaire, che esce in questi giorni in Francia per il marchio Que sais-je? (pagine 128, euro 9,00). Si deve invece a Montesano, narratore e francesista, il macrocosmico Baudelaire è vivo (Giunti, pagine 1.296, euro 28,00), all’interno del quale si ritrovano i Fiori nella loro interezza e in ogni loro ramificazione, puntualmente tradotti e ampiamente commentati. O, meglio, «raccontati», come suggerisce Montesano, che all’opera di Baudelaire ha dedicato negli anni un’attenzione costante, prima collaborando con Giovanni Raboni all’allestimento del “Meridiano” Mondadori (1998), poi fornendo una sua versione della Capitale delle scimmie (2002), cruciale libello scaturito dallo sfortunato soggiorno del poeta in Belgio, e infine, nel 2007, pubblicando la convincente biografia critica Il ribelle in guanti rosa.

Nel decennio successivo Montesano è stato impegnato in un’altra impresa massimalista, ovvero le duemila pagina scarse di Lettori selvaggi (Giunti, 2016), strepitosa galleria di capolavori che dai Veda induisti si spinge fino al premio Nobel Bob Dylan. Anche in quel libro Baudelaire gioca un ruolo niente affatto irrilevante, presentandosi come il poeta bifronte che da un lato spalanca le porte a «Modernità» e «Contemporaneità» (le maiuscole sono di Montesano), mentre dall’altro «invoca il Dio giusto dell’Apocalisse contro il Pop» e «ai paradisi artificiali di massa preferisce i paradisi artificiali della poesia». La prospettiva è quella ora ribadita da Baudelaire è vivo, nel quale l’adesione serrata al dettato dei versi e la ricostruzione delle rete di rimandi e citazioni interne sortiscono l’effetto congiunto di evitare un’interpretazione troppo uniforme. In fondo, è lo stesso obiettivo che Ossola persegue isolando le sue cento parole-chiave, ciascuna delle quali può essere messa in relazione con le altre e, nello stesso tempo, aprire un filone autonomo, inesauribile per profondità e complessità.

Anche quando non coincidono, le proposte di Montesano e di Ossola in qualche modo convergono, anche per quanto riguarda uno degli aspetti più tipici – e tipicamente controversi – della figura di Baudelaire: quello delle sue convinzioni religiose. Nato a Parigi il 9 aprile 1821 e a Parigi morto il 9 agosto 1867, il poeta si era riavvicinato al cattolicesimo negli ultimi anni della sua vita, in un percorso al quale non era estraneo il legame ancora una volta contrastato con la madre Caroline Aupick. Ma anche in precedenza, anche mentre scriveva I Fiori del Male (sì, siamo passati alla maiuscola), Baudelaire si era mostrato prodigo di allusioni liturgiche e di richiami alle Scritture, spesso risolti in un’intonazione polemica.

Più ancora che per questa presunta blasfemia, nel 1857 I Fiori del Male suscitarono scandalo per l’esplicito erotismo di alcune composizioni. Il processo che si celebrò quello stesso anno, in buona parte analogo a quello intentato contro Gustave Flaubert e la sua Madame Bovary, si concluse con la condanna di Baudelaire, costretto a espungere una manciata di poesie ritenute immorali. Il senso generale dell’opera rimane però immutato, ed è un senso che Ossola e Montesano descrivono con parole non dissimili: il primo sottolineando il tentativo di «parlare del divino sotto un cielo svuotato di Dio»; il secondo ribadendo che, pur non avendo «alcuna fede in alcun Dio», Baudelaire rimane soggiogato da una fascinazione per l’abisso che ha le sue origini nel giansenismo di Pascal. Nell’architettura di Les 100 mots de Baudelaire questo è uno dei punti decisivi. Ossola è infatti persuaso che I Fiori del Male (la maiuscola, sostiene lo studioso, è presente in tutti i manoscritti preparatori) vadano letti alla luce della «scommessa» pascaliana, dalla quale il poeta esce deliberatamente sconfitto. Più sfumata la posizione di Montesano, per il quale in Baudelaire è preminente un atteggiamento gnostico, al quale non sono estranee le suggestioni del misticismo tardosettecentesco (Mesmer e, in particolare, Swedenborg).

Ma anche Ossola insiste sul «manicheismo » del poeta, che non solo contrappone Satana a Dio («un Dio cercato invano, invano desiderato», scrive il critico), ma più radicalmente ancora presuppone la convinzione che «il peccato sia lo statuto stesso della condizione umana». Montesano, da parte sua, richiama a più riprese l’importanza dell’influsso esercitato su Baudelaire dal marchese de Sade, l’eco della cui voce giunge anche attraverso la mediazione imprevista dell’oltranzista cattolico Joseph de Maistre. «Era il sistema di Baudelaire per conficcare sé stesso nella morsa della contraddizione tra le idee e dentro una stessa idea, per sposare sempre ciò che stava all’opposizione », si legge in uno dei passaggi più significativi di Baudelaire è vivo. In definitiva, è per via di questo furore metafisico che i conti con il poeta dei Fiori del Male non sono mai chiusi. Perché è il suo è furore, appunto. Ma più che altro perché è metafisico.

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