venerdì 22 ottobre 2021
Fino al 9 gennaio alle Scuderie del Quirinale una discesa nelle visioni dell’Ade, ordinata da Jean Clair, . Un tema su cui il nostro tempo vuole riflettere senza porsi il problema dell’Aldilà
Pieter, "Inferno" (1570, particolare)

Pieter, "Inferno" (1570, particolare) - Madrid, Museo del Prado

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Stando al diavolo di Thomas Mann nel Doktor Faustus, l’azzardo ormai è compiuto. Ovvero: cedere alla tentazione, nell’anno dantesco, di rappresentare l’inferno. Jean Clair, certo, non ne è stato minimamente impensierito; ma nemmeno, in tempi di virus, immune. Un po’ come un Adrien Leverkühn o un Ivan Karamazov, ha dato appuntamento al diavolo per un faccia a faccia. Simbolico, è chiaro. Ma non astratto. Il ponte metaforico aggetta da Saturno a Satana (anche con affinità etimologiche), poiché Kronos è padre-dio che divora i suoi figli.

Il fatto è – figurarsi se Clair non ne è consapevole – che parlare dell’inferno non è soltanto difficile o impensabile, ma “impossibile”. Rilutta al linguaggio, le immagini depistano, ma i simboli che – come ricorda Clair nel suo saggio – “uniscono” e dovrebbero smascherare il re dei separatori, colui che divide, diabolos, finiscono per dissolversi alla vista. Più vedi, meno stringi. E gli “inferni” si moltiplicano. Ma ecco come il diavolo di Thomas Mann, dal quale emana un freddo che gela il povero Leverkühn, spiega così l’inferno: «Non è facile parlarne: voglio dire, a rigore non si può parlarne in nessuna maniera, perché la realtà non è congruente con le parole... perché le parole “sotterraneo”, “cantina”, “mura spesse”, “silenzio”, “oblio”, “mancanza di salvezza” sono soltanto deboli simboli...».

Pieter, 'Inferno' (1570, particolare)

Pieter, "Inferno" (1570, particolare) - Madrid, Museo del Prado

È il viatico giusto per questa mostra alle Scuderie del Quirinale sull’Inferno che chiude l’iperattivo anno dantesco. Ci si potrebbe affidare all’hasard objectif di Breton, evocato da Jean Clair, accogliendo in un senso quasi letterale la definizione che ne dà il padre del surrealismo: «forme de manifestation de la nécessité». E qui la necessità, che mezzo secolo fa trovò il suo contraltare nel caso, in un saggio del biologo Jacques Monod, autorizza a un salto paraetimologico fra azzardo e hasard (girando attorno al caso). Era il titolo di un’opera tarda di Breton, 1959, dove una tavola di sughero, uno spago e un elastico che descrive un orifizio a mandorla, assumono valenza erotica (venne esposta in quell’anno alla mostra Éros alla Galleria Cordier di Parigi) e giocano – come piaceva ai surrealisti – a “l’uno nell’altro” (compenetrazione di materiali e di sensi), in concordia dialettica. Era un’allusione, come è stato scritto, alle intenzioni segrete del desiderio. E proprio questo è ciò che conduce, o salva dall’inferno.

La mostra, invece, resiste alla messa in questione di che cosa sia ancora per noi l’inferno, oltre il male dilagante. Che cosa è cambiato nella percezione dell’inferno negli ultimi due secoli, per esempio? La secolarizzazione ha svuotato l’inferno delle sue ragioni trascendenti? Ha sicuramente cambiato il rapporto coi peccati capitali, e la psicoanalisi ha trovato per ognuno una “rimozione” psichica dunque una sorta di assoluzione clinica e un allontanamento dalle pene infernali. Ma esistono inferni interiori forse peggiori.

La rassegna segue strade per così dire più “illustrative” e poco analogiche: il visitatore è accolto dall’imponente e incombente gesso della Porta dell’Inferno di Rodin, accanto sta il Giudizio Finale dell’Angelico, di fronte la Caduta degli angeli ribelli del secentesco Andrea Commodi, in un caos di corpi dall’aspetto più che gelido, e quella settecentesca, torre scultorea composta da un intreccio di uomini nient’affatto comunicanti, anzi disperatamente “ognuno per sé”, attribuita a Francesco Bertos. Già nella prima sala s’è capito che quello che vedremo, in omaggio a Dante, è l’inferno sotto lo sguardo della modernità. Tema di un’incomprensione, sostanzialmente.

Jake e Dinos Chapman, 'Nein! Eleven' (2012-2013, particolare)

Jake e Dinos Chapman, "Nein! Eleven" (2012-2013, particolare) - .

Jean Clair legge i simboli, secondo una sua ormai sperimentata articolazione di “critica alla modernità”, fra orrore, fetore e amore per tutto ciò che distrugge, decompone, stercorizza. La merda è davvero così infernale? E quando lo è? Arriva Dante a dar manforte: «Vidi gente attuffata in uno sterco, / ... Vidi un col capo sì di merda lordo...». Il fango-merda è anche materia originaria, e da qui discende la sua stessa sacralità (che resta tale se non di più nella terra desolata delle trincee di un tempo); ma questa materia iniziale esprime anche una simbologia negativa dove l’abyección gloriosa è l’ossimoro che permette di attraversare il male-cloaca (o il Borborós platonico) senza esserne inghiottiti. Per Platone, gli uomini che giungeranno nell’Ade senza essere purificati e iniziati dovranno restare nel Borborós, invece di vivere con gli dèi. E riprendendo il mito di Arlecchino Clair si chiede quale senso possa avere oggi «in una società che gli dèi hanno disertato»?

Il Maligno, Satana, il Diavolo: il nostro mondo che si emancipa con la tecnica e il denaro che la rende sempre più invasiva, non ne parla quasi più; si entusiasma tutt’al più per la battuta «al mio segnale scatenate l’inferno»: persino la Chiesa – dice Clair – «non osa più nominarlo». Credere all’inferno significa immaginare qualcosa che resta percepibile come possibilità, ma è a suo modo “incredibile”. Questa mostra, alla fine, ci presenta un “inferno calmo”, da increduli postmoderni. Vediamo i disastri della guerra coi soliti Goya, Groz, Dix, Kubin, Beckmann (ma chissà perché non il Miserere di Rouault, l’unico vero “polittico” novecentesco dell’inferno bellico e della disumanità). Oppure, apparecchia le visioni demoniache tra Cinque e Settecento, ma sono demoni che, oggi, con l’overdose di film horror non inquietano più. L’inferno è quello addomesticato della realtà che le televisioni e il computer ci propinano tutti i giorni fra guerre, epidemie, violenza, atti di follia; oppure è il male assoluto dell’olocausto; ma lo sdegno difficilmente va oltre chiedendosi che cosa sia effettivamente perché per farlo bisogna ipotizzare un dopo e una giustizia divina.

Blake, il visionario di questo destino corrotto; Baudelaire e i malefici fra malinconia e perversione; Rodin, Carpeaux, Doré: l’inferno retorico; la raffinatezza dei disegni di Federico Zuccari per la Commedia; l’elegante espressionismo di Barceló; la misogina lussuria di Victor Prouvé e il Peccato-Donna di Franz von Stuck – ma allora perché non convocare la vampira di Munch? Alla fine i più convincenti restano gli “antichi” nordici: Cranach, Bruegel e soprattutto Bosch: nel suo inferno di mostriciattoli e umani dediti – con una certa lena – a tutti i peccati capitali, si coglie una vera perfidia, quella di chi, chiamato a dar voce alle paure umane (alimentate e temute dagli stessi ecclesiastici dell’epoca), quasi se ne beffa mettendo in scena un “inferno comico”. Nessuno oggi si turba vedendolo, ma poi, come un dispositivo ritardato, il lavoro onirico forse farà il resto. Buona discesa a tutti.

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