sabato 10 luglio 2021
Una concezione dell’eloquenza fondata non sull’artificio ma sulla ragione accomuna i due “massimi sistemi” della letteratura italiana, l’alfa e l’omega di una storia che non è solo letteraria
Manzoni ritratto da Hayez

Manzoni ritratto da Hayez - archivio

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Una concezione dell’eloquenza fondata non sull’artificio ma sulla ragione accomuna i due “massimi sistemi” della letteratura italiana, l’alfa e l’omega di una storia che non è solo linguistico-letteraria e che permette di accedere alla dimensione della fede dei due autori, alle loro “vite parallele”. Nell’Ottocento il dantismo diventa la cartina di tornasole di un’intera stagione culturale, italiana ed europea. La mitizzazione dantesca di Alessandro Manzoni ha la sua genesi all’interno del gruppo dei manzoniani più coinvolti nell’entusiasmo morale ed intellettuale verso il maestro, per i quali il parallelismo legato alla religiosità evidenzia, in Dante, una fede «sublime, tratto tratto angelica e pura come oro», e in Manzoni una virtù teologale «casta, magnanima, veneranda, dolce e mansueta senza mollezza, forte senza durezza quale risplende nell’Evangelio» (Gioberti). Il dantismo manzoniano, dalla giovinezza entusiasta alla maturità consapevole con lo spartiacque della conversione, diventa emblematico di una condizione esistenziale vissuta all’interno di un preciso contesto storico, politico e culturale: storico, per le vicende legate all’unità d’Italia; politico, per la nascita dei movimenti del neoghibellinismo e del neoguelfismo; culturale per la grande riscoperta di Dante, nella prima metà dell’Ottocento. Infatti la cultura europea dei primi decenni dell’Ottocento è segnata dal rinnovato interesse per Dante di Simonde de Sismondi autore di opere che testimoniano anche gli orientamenti storiografici ed estetici di Coppet, di Madame de Staël e di W. Schlegel. Nell’ultimo decennio del Settecento prende l’avvio la formazione morale ed intellettuale di Alessandro Manzoni, prima presso i padri somaschi e poi presso i barnabiti. L’ammirazione per Dante nasce dall’insegnamento del filosofo sensista padre Francesco Soave e risente del dantismo classicheggiante di Vincenzo Monti. Calchi danteschi attraversano il Trionfo della Libertà, così come in Urania (1809) emerge un Dante definito ossimoricamente «De l’ira maestro e del sorriso», che va oltre la «lunga notte medievale». Tra i due testi, Trionfo e Urania, si colloca la conoscenza di Claude Fauriel, e del suo dantismo, generatosi all’interno dei fervidi scambi di idee con Sismondi, Stäel e Schlegel. Quanto ciò fosse determinante, nella storia del dantismo cattolico, lo dimostra la presenza di Frédéric Ozanam alle lezioni accademiche di Fauriel su Dante e la sua opera. Il dantismo manzoniano dunque si incunea profondamente nel dantismo europeo anche se successivamente gli anni della maturità determineranno un cambiamento radicale nella ricezione di Dante, soprattutto quando il poeta fiorentino diventa la bandiera degli opposti estremismi del neoghibellinismo e del neoguelfismo, nei quali Manzoni non si riconosce. Conseguentemente prende le distanze da codesta strumentalizzazione del pensiero politico di Dante. Cesare Cantù, negli incontri con Manzoni, lo aveva sentito affermare che Dante in nessun luogo del suo poema censura l’istituzione papale, ma soltanto gli abusi di quella, quando il discorso inciampava sulla questione romana. I distinguo permettono così di cogliere le consonanze nel terreno della fede. Lo testimoniano le lettere al Fauriel, nel periodo della conversione. Alessandro legge e rilegge i canti finali del Purgatorio che descrivono il riscatto morale di Dante poche settimane prima di scrivere la supplica al Papa per l’autorizzazione a ricelebrare il matrimonio col rito cattolico. La conversio di Dante, può essere così avvicinata all’aversio- conversio dell’Innominato nei capitoli centrali dei Promessi sposi, e la parola chiave sembra essere “riconoscenza”. Codesta vicinanzadifferenza morale e teologica sarà avvertita da san Paolo VI che, secondo la testimonianza del cardinale Giovanni Colombo, fin da quando era arcivescovo di Milano si faceva leggere dal segretario monsignor Macchi un canto della Commedia o un capitolo dei Promessi sposi, abitudine che avrebbe continuato anche da Papa. Dalle Testimonianze del cardinal Colombo conosciamo la diversità di papa Montini nel suo leggere e amare la Commedia e i Promessi sposi. Se la prima lo affascinava per la «fulgente concezione piramidale della verità teologica che congiunge il centro della terra al sommo del cielo», ai Promessi sposi si sentiva legato per una piena consonanza di sentire e vivere la carità cristiana: «Questo romanzo c’insegna a non aver paura dell’uomo che ha espulso dal suo cuore Dio e la sua grazia; c’insegna a non escludere nessuno dalla pietà divina, c’insegna a credere che sotto ogni evento dell’esistere umano si nasconde un gesto d’amore della Provvidenza; c’insegna, infine, a essere noi Provvidenza a chi più di noi affonda nel bisogno». Le parole di Paolo VI, nella differenza, ci delimitano la somiglianza dei due poli dell’umanesimo cristiano.

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