sabato 5 novembre 2016
Il viaggio di papa Francesco in Svezia è stato «un punto di non ritorno» nel rapporto tra cattolici e Chiese riformate; il teologo Lorizio spiega perché
Lorizio: «Il buon ecumenismo comincia dal popolo»
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l viaggio di papa Francesco in Svezia è stato «un punto di non ritorno» nel rapporto tra cattolici e Chiese riformate. Un evento che tiene insieme «continuità rispetto al cammino post-conciliare e novità secondo la visione teologica del pontefice». Monsignor Giuseppe Lorizio, ordinario di teologia fondamentale alla Lateranense (Pul) e direttore del Gruppo di ricerca interconfessionale e interfacoltà sulla spiritualità della Riforma istituito presso lo stesso ateneo, legge così la recente due-giorni di papa Bergoglio, all’inizio del V centenario della riforma luterana: «Nessuno scandalo, il Santo Padre non è andato lì per festeggiare, ma per fare memoria, anzi per "purificare la memoria", come avrebbe detto Giovanni Paolo II. E la visita ha messo in luce elementi importantissimi per il futuro del dialogo ecumenico».

Che cosa ha detto di nuovo, quindi, questo viaggio?
«Anzitutto sgombriamo il campo da eventuali equivoci. Papa Francesco non sta facendo qualcosa di diverso da quello che Giovanni Paolo II con la proposta del "primato di servizio" nella Ut unum sint e Benedetto XVI con la sua presenza a Erfurt avevano cercato di fare, del resto in linea con il Concilio. La novità teologica che ho riscontrato leggendo i discorsi è contenuta in questa frase: "Dobbiamo guardare con amore e onestà al nostro passato. Riconoscere l’errore e chiedere perdono. Dio solo è giudice. Si deve riconoscere con la stessa onestà e amore che la nostra divisione ci allontanava dall’intuizione originaria del popolo di Dio che aspira naturalmente a essere unito". Il Papa, cioè, ha agganciato il discorso ecumenico a quella che noi chiamiamo la teologia del popolo di Dio. Per Francesco, dunque, si tratta anzitutto di ascoltare ciò che lo Spirito dice nel popolo di Dio, aspirando all’unità e non alla divisione, perché riconosce in Cristo il suo Signore. E questa sottolineatura è veramente nuova e interessante».

Interessante anche per i teologi professionisti? Non c’è il rischio di sminuirne il ruolo?
«Quello che dice il Papa non esclude che ci siano dialoghi e contatti di rappresentanti delle Chiese. Non esclude – anzi egli lo ha detto espressamente – che bisogna lavorare anche a livello teologico per aiutare la comprensione e l’interpretazione delle dottrine, ma senza mai perdere di vista il carattere ecclesial-popolare delle Chiese. Anche quando Francesco dice che metterebbe i teologi su un’isola, il suo non è certo un elogio dell’ignoranza, ma uno stimolo a fare teologia senza perdere di vista la concretezza, la vita della Chiesa. Ciò che non vuole è la pura astrazione, ma una teologia che sappia accompagnare il popolo di Dio. Se per analogia possiamo pensare alla ri-forma come una sorta di ri-formattazione del cristianesimo, il ruolo della teologia sarà quello del tecnico, che ci aiuta a non perdere i dati nel processo. In ogni caso risulta acquisito da entrambe le parti che le differenze dottrinali non sono tali da giustificare le reciproche condanne e scomuniche».

In questa prospettiva, dunque, quali passi bisogna compiere ora?
«Il tema che dopo la Dichiarazione congiunta sulla giustificazione ha animato il dibattito teologico è quello dell’uomo insieme giusto e peccatore. Dal punto di vista dei luterani questo significa che il peccato resta e che nessuno ce lo può togliere. Da quello cattolico è un’affermazione che richiama da vicino l’esperienza della santità: e cioè che più si è santi, più si acuisce in noi il senso del peccato. Il vero problema della cultura contemporanea è che questo senso è quasi del tutto scomparso. Ben venga, dunque, l’impulso luterano a ripensarlo, così anche noi saremo portati a non ridurlo a un vago senso di colpa dal quale mi può liberare soltanto la psicoanalisi, ma a vedere il peccato in tutta la sua potenza dentro la vita del credente, per avviare un cammino che è sempre di conversione e penitenza per tutti».


Un tema che appare perfettamente coerente con il magistero di papa Francesco. Non crede che, con la sua forte sottolineatura della misericordia, egli stia invitando la post-modernità a recuperare proprio il senso del peccato?
«Sono d’accordo, perché non ho mai pensato il tema della misericordia come un colpo di spugna o una pacca sulla spalla. Il buonismo populista non appartiene a questo pontificato. Anzi, proprio perché si mette l’accento sull’accoglienza misericordiosa di Dio, al tempo stesso si recupera il senso forte del peccato. E del resto non ci sarebbe bisogno della misericordia, se il peccato fosse una semplice distrazione da cui mi posso riprendere con le mie forze. Una prova in questo senso viene proprio da un’altra novità del viaggio in Svezia».

Ce la dica.
«Le beatitudini che io chiamerei 2.0 enunciate a Malmö. In altri termini, Francesco ci sta ricordando che non esiste solo il peccato personale di ognuno, ma ci sono quelle che Giovanni Paolo II chiamava "strutture di peccato", sociali, politiche, economiche e culturali. Strutture di ingiustizia, di rifiuto del povero, del nomade, del migrante. Strutture che mettono a rischio la salvaguardia del creato. Ecco, anche questo è un tema profondamente ecumenico, perché la lotta contro simili mali ci deve trovare il più possibile alleati sia con i fratelli della Riforma, sia con le Chiese dell’Oriente».

Un ecumenismo pratico accanto a quello teologico, dunque?
«Un ecumenismo etico-pratico, che deve farci tornare a mettere a tema la questione veramente centrale, la questione di Dio. Mi ha molto colpito, guardando la serie The young Pope, il passaggio del virulento discorso di insediamento del giovane Papa in cui il protagonista afferma che "ci siamo dimenticati di Dio!". È vero, questo è il grande problema della vecchia Europa e in generale dell’Occidente. E anche nelle nostre comunità ecclesiali a volte si fanno tante attività, ma si rischia di perdere di vista l’essenziale. La stessa accoglienza del povero e dell’immigrato, se non è fatta in nome di Dio, si riduce a filantropia. Questo è dunque un tema di dialogo sul quale dobbiamo andare avanti».


Lei dirige una specifica area di ricerca della Pul che lavora fianco a fianco con teologi luterani e valdesi. Di che cosa si occupa in particolare?
«Di mettere a fuoco soprattutto tre elementi: la teologia della croce, il paradosso dell’uomo che è insieme giusto e peccatore e l’agire ecclesiale. Con un precedente gruppo di lavoro italo-tedesco finora abbiamo pubblicato tre volumi e altri sono in preparazione. Ma lo scopo, come ci disse l’allora cardinale Ratzinger nel 2001 all’inizio del lavoro, non è cercare per forza di andare d’accordo, quanto un approfondimento teologico in cui si vedano anche le differenze, oltre ai punti in comune. Con l’attuale area di ricerca, per i 500 anni della Riforma stiamo organizzando un congresso internazionale che si terrà nell’ottobre 2017 e toccherà tutte e tre queste aree tematiche».

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