martedì 7 settembre 2021
Leone d’oro sei anni fa, il regista venezuelano Lorenzo Vigas interroga con il duro “La caja” tra lacerazioni affettive, abusi nel lavoro e misteriose scomparse di migliaia di donne
L'assenza dei padri dietro alle dittature
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Un viaggio alla ricerca del padre, un incontro inatteso, un percorso di formazione brutale in un paese dove il lavoro può essere schiavitù e morte. A sei anni dal Leone d’Oro per la sua opera prima, Desde Allá, il venezuelano Lorenzo Vigas torna alla Mostra del Cinema di Venezia con il terzo capitolo di una trilogia dedicata alla paternità in America Latina, La Caja (La scatola). Hatzin, un adolescente di Città del Messico, parte per il nord del Paese attraversando immensi paesaggi per recuperare i resti del genitore, trovati in una fossa comune. Casualmente però si imbatte in un uomo, fisicamente somigliante al padre che lo riempie di dubbi e speranze su dove questi sia davvero finito.

D’altra parte i racconti di questi farebbero pensare che sia davvero lui il padre del ragazzo, che lo abbia abbandonato da piccolo ma che ora sia pronto a recuperare il tempo perduto. Ora recluta lavoratori intermittenti e a cottimo per stabilimenti industriali di assemblaggio e Hatzin decide di aiutarlo, ma la scomparsa di una ragazza che rivendica condizioni di lavoro più umane costringe il ragazzo a confrontarsi con una realtà che neppure immaginava. Vigas firma dunque un duro passaggio dall’infanzia all’età adulta, ma pieno di poesia e compassione. «In America Latina – dice il regista – esiste un grandissimo numero di famiglie smembrate, per le quali l’assenza della figura paterna è una realtà ormai normale.

Molti giovani crescono forgiati da questa assenza. Tale questione, fondamentale per definire la personalità di ogni individuo, mi ha interessato come regista. Anche l’identità del nostro continente è collegata a questa realtà. Non è un caso infatti che in America Latina fenomeni come il peronismo o il chavismo abbiano lasciato un segno sociale, politico e umano profondo: la figura del leader ha finito per riempire, da un punto di vista psicologico, quel vuoto, quel bisogno, rappresentando quel padre che non è mai stato presente in famiglia e di cui noi siamo alla disperata ricerca.

Ma se il cuore del film è il bisogno del padre manifestato dal ragazzo protagonista e cosa è disposto a fare per riaverlo indietro, le fabbriche e la scomparsa delle donne sono un tema che si è aggiunto in maniera naturale. Più di 20mila donne sono recentemente scomparse nel Nord del Messico e nessuno sa perché. Mario però è un piccolo ingranaggio in un sistema gigantesco, che va dalla Cina al Messico. Fa cose molto riprovevoli, ma essendo un pesce piccolo non ne comprende la gravità e il male da lui commesso diventa quasi banale».

Se il giovane esordiente Hazin Navarrete, che interpreta il ragazzo, quasi si commuove al ricordo di un’esperienza umana e cinematografica che gli ha cambiato la vita e lo ha reso una persona migliore, il celebre attore messicano Hernan Mendoza, che veste i panni di Mario, aggiunge: «Per me è stata una grande esperienza. Abbiamo trascorso molto tempo a Chihuahua, in una realtà difficile, e il regista ci ha chiesto verità e perfezione. In quel luogo la necessità di avere lavoro ti obbliga a fare cose orrende, a sottometterti a mafie e sfruttatori. Il mio personaggio deve trovare degli schiavi distinguendo tra ribelli e malleabili, forti e deboli, approfittando di ciascuno di essi». «Le riprese a Chihuahua – dice ancora il regista – sono state difficili perché la zona è governata da cartelli e noi dovevamo rassicurarli che volevamo solo girare un film».

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