giovedì 2 ottobre 2014
​Per la prima volta nella sotria della Chiesa una donna è consultore della Congregazione delle cause dei santi. Intervista a suor Albarosa Ines Bassani
COMMENTA E CONDIVIDI
​​Passa molto tempo fra i libri e i documenti nel suo studio all’Istituto Farina. È figlia della sua Vicenza, suor Albarosa Ines Bassani, delle Suore maestre di Santa Dorotea Figlie dei Sacri Cuori. Ma anche di Roma: nel 2012, per la prima volta nella storia ecclesiale, è stata scelta come consultore della Congregazione delle cause dei Santi, prima fra le donne assieme a suor Grazia Loparco, salesiana. Un traguardo? Lei preferisce definirlo "il frutto" di un lavoro paziente e appassionato svolto per anni a servizio della sua congregazione. Laureata in Scienze naturali, la religiosa 68enne è presidente della classe di Lettere e arti dell’Accademia Olimpica. Incarichi che assume con umiltà e al tempo stesso con determinazione. «Ho sempre percorso una via culturale», dice di sé. Come il suo fondatore Antonio Farina, il vescovo dei poveri che sarà proclamato santo da papa Francesco il prossimo 23 novembre, ha valorizzato la specificità del carisma femminile? «Negli anni Trenta dell’Ottocento, la donna non era considerata all’altezza di un’istruzione religiosa neppure elementare. Il suo ruolo era subalterno al mondo maschile sia da nubile che da sposata; il suo compito era quello di accudire i figli, restando analfabeta. Le donne erano l’anello più fragile della società, prede della malavita e della prostituzione. Senza avere neppure la coscienza di essere di pari dignità all’uomo. Il viceparroco don Farina intuì che la donna era la prima educatrice dei figli, a cui dare gli strumenti per educarli ed elevare così la società; diresse la Pia opera di Santa Dorotea (iniziata dal Beato don Luca Passi) e fondò una scuola di carità gratuita e femminile affidata a insegnanti laici. Pensò a donne consacrate dedicate alle donne e nel 1836 fondò il nostro Istituto di consacrate "per la società, nel mondo". Scelse una divisa delle donne del popolo: cuffietta, vestito lungo nero, mantella. "Le mie sono maestre per scuole di periferia. Se non possono tornare a casa la sera, si fermino a casa di una famiglia o del parroco", scriveva, e la Chiesa lo bacchettò. La sua logica non era soccorrere la donna, ma darle gli strumenti per inserirsi nella società ed essere autonoma».Un’ottica profetica della missione al femminile…«Sì. Perché abbracciava bambine povere e ricche, sorde e cieche. Come vescovo - direttore della scuola civile pubblica - il Farina ha avuto per le suore un pensiero che chiamo la punta di diamante dell’emancipazione femminile. Sembra che sia stato il primo a dare un testo di formazione professionale alle suore. Diceva alle prime Dorotee infermiere, che assistevano anziani e malati anche a domicilio: "Dopo il Vangelo e la Regola, il vostro vademecum è il manuale di nozioni scientifiche", che aveva fatto tradurre aggiungendo un’appendice di catechismo, perché curando fossero anche educatrici e catechiste».Come fondatore, fa un passo indietro?«L’impostazione che dà all’Istituto dimostra la sua grande stima per la donna. La Chiesa metteva accanto alla madre generale un direttore ecclesiastico imposto dal vescovo, con questa motivazione annotata in alcuni documenti rinvenuti nell’Archivio segreto vaticano: "La donna non ha la capacità di governare, troppo impressionabile". Farina, che diventa vescovo nel 1850, avvia le suore a gestirsi da sole economicamente e complessivamente; la Chiesa arriverà verso la fine del secolo a dare questa autonomia alle madri generali». Qual è stato il suo percorso di studi?«A Vicenza ho frequentato l’Istituto Farina, dove nutrivo ammirazione per le mie insegnanti Dorotee grazie all’apertura culturale e al clima affettuoso. Ho capito che il Signore mi chiamava a essere come loro: un richiamo molto più profondo che mi ha disturbata parecchio. Una chiamata scomoda che mi tormentava, ma se non dicevo sì non sarei stata contenta. Quindi la mia vocazione è stata quella di arrendermi a Dio, pur temendo che l’istituzione mi soffocasse; invece le superiore mi hanno fatto essere me stessa. Mi sono realizzata come donna con il dono di avere uno sguardo sul mondo: ho viaggiato, conoscendo varie culture. Mi sento fuori dagli schemi, con una carica di entusiasmo che mi ha riempito la vita. Dopo la laurea in Scienze naturali all’Università di Parma - dove ho vissuto il ’68 in mezzo ai ragazzi -, ho insegnato per un decennio». Poi la superiora generale le chiese di occuparsi della storia del suo Istituto.«La grafia del Farina era difficile: ho cominciato a trascrivere le sue lettere alle suore, in parallelo all’insegnamento. Mi affascinava il lavoro poliziesco della ricerca storica, applicando allo studio la metodologia scientifica. Ho fatto il segugio nei depositi dell’Archivio segreto vaticano, raccogliendo circa 66 volumi di documenti pari a 20mila pagine. Poi ho frequentato i corsi di archivistica e di postulatore in Vaticano, fino a scrivere la Positio per la causa di beatificazione del Farina: 2mila pagine».Il "quid" femminile è stato determinante in questa esperienza?«Ho una doppia chance come donna: il mio carattere e l’essere religiosa, che suscitano delicatezza e fiducia nei miei confronti. Il sapore della ricerca mi ha riempito la vita, anche se ho incontrato poche donne nell’Archivio vaticano; però ci sono eserciti di suore traduttrici che nell’Annuario pontificio non compaiono». Nella sua vita c’è posto anche per il versante "laico" della cultura?«Con sorpresa sono stata nominata nel 2001 per meriti culturali dall’Accademia Olimpica di Vicenza. Nata nel 1555, è la più antica d’Italia e ha fatto costruire da Andrea Palladio il Teatro Olimpico; in passato aveva avuto fra i suoi membri qualche prete, tra cui Farina, ma mai una suora. Una bellissima opportunità di prospettiva laica, aconfessionale».Cosa pensa delle nomine di donne in posti di responsabilità nella Curia romana?«C’è un passaggio: i tempi della Chiesa non sono i nostri. Da Giovanni Paolo II a oggi sta maturando gradualmente un apprezzamento della donna. Si sta superando la paura della presenza femminile. Sono fiduciosa: riconoscere la ricchezza culturale della femminilità è una ricchezza per la Chiesa, anche per la nostra sensibilità psicologica e spirituale».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: