domenica 22 maggio 2022
Il latinista ed ex rettore di Bologna ha presentato a Torino il suo ultimo libro «Invoco un’ecologia linguistica. Ogni cosa oggi passa sullo schermo in poche ore. Cosa consegniamo di ciò che avviene?»
Ivano Dionigi

Ivano Dionigi - Ansa

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Inviato a Torino «La lingua non mente». È un frase che Ivano Dionigi, filologo classico ed ex rettore dell’Università di Bologna, usa più volte. Occidente, ricorda, viene da ob-cadere, tramontare. Oriente è il sole che sorge, metafora di chi arriva da noi. «Abbiamo avuto un grande umanesimo, ma abbiamo i capelli bianchi, loro hanno vent’anni. Tra 40 anni la Nigeria avrà più abitanti dell’Europa. Per sopravvivere sarà bene non erigere muri mentali o fisici. Ce lo dicono le parole prima dei teatri di guerra». Oggi sulla bocca di tutti ci sono le antichissime 'pandemia', 'virus' e 'vaccino', «che non sono state lanciate da qualche influencer ». Alle parole nella storia Dionigi ha dedicato il suo ultimo libro Benedetta parola (Il Mulino, pagine 184, euro 16,00) presentato venerdì al Salone del Libro con Massimo Cacciari e Simonetta Fiori. In questa intervista l’autore - che i lettori di 'Avvenire' conoscono per la rubrica "Tu quis es?" - parte dagli amati latini e greci, per arrivare a Steve Jobs e Mark Zuckerberg. Il primo ha detto che vanno sfornati non solo informatici, ma «ingegneri rinascimentali». La tecnologia ha bisogno del sapere umanistico. Il secondo, ricevendo dei libri di Cicerone a Roma, ha detto che bisogna studiare il latino e sono apparsi titoloni sui giornali. «Ma ce lo dobbiamo far dire da lui?», sbotta Dionigi. Che nella sua riflessione non tralascia l’attualità del conflitto in Ucraina. «Il 24 febbraio, inizio dell’invasione, è una data spartiacque», dice.

Le guerre nascono dalle parole, che a volte anche le fermano. Quali servirebbero?

«Primo Levi: "sedete e trattate". La parola vuol dire politica. È questa che manca. È stata affidata ai tecnici, alla politica delle armi e non alle armi della politica. La parola può tutto. Come ha detto Cicerone, gli eloquentes, coloro che uniscono il ben dire al ben pensare, hanno fatto finire molte guerre. Per Lucrezio è più importante Epicuro di Ercole perché ha distrutto i mostri con le parole, non con le armi. E poi il logos giovanneo...»

A cosa è dovuto il deficit della politica?

«Anche agli intellettuali, che un tempo vivevano di luce propria, mentre oggi si accodano al potente di turno. La responsabilità è reciproca: i politici non cercano gli intellettuali e questi non fanno il loro dovere, che è dire come il mondo dovrebbe andare, non come va. Bisogna elaborare un nuovo pensiero. La storia ha conosciuto momenti anche peggiori di questo e poi ha ricominciato.

Quali parole deve adottare la politica per agire?

«Inutile dire «sono riformista, sono progressista ». Sono parole morte. Invece, se siamo «fratelli» allora si pone un altro lessico di fronte a chi fa la guerra. Non è questione di Est-Ovest, Nato-non Nato, è un’altra categoria. Pensiamo al miracolo della Pentecoste. Ognuno parlava la sua lingua, ma si capivano. Una volta una persona mi chiese, in quanto presidente della Pontificia accademia per la latinità, di proporre a tutti di parlare latino. Risposi che sarebbe un crimine contro l’umanità. Propongo, poi, tre verbi: intelligere, capire, interrogare, invenire, scoprire. Tre 'i' in contrapposizione a quelle della Moratti per la scuola: inglese, internet e impresa. Infine, siamo tutti 'muscolari', 'olimpionici', 'darwiniani': citius, più veloce, altius, più in alto, fortius, più forte. Allora dico con Alexander Langer: lentius, profundius, suavius. Tutte parole che mi sono venute in 97 incontri con 15mila giovani in tutta Italia».

Lei loda alcune iniziative imprenditoriali per libri e lettura, contrapponendole al Pnrr che penalizza la cultura.

«L’imprenditore è inserito nella realtà, si rende conto di non poter essere solo tecnologia. Tre mesi fa sono stato chiamato alla Ferrari per tenere un seminario a 20 top manager su cultura umanistica e parola. Gli ultimi premier hanno fatto tutti il classico, ma propagandano gli studi tecnici e professionali. Dobbiamo capire che la cultura è il nostro petrolio».

Il libro parte dalla donazione di una biblioteca. Quale ruolo ha queste istituzioni?

«La biblioteca è stata l’Eden del sapere, perché non solo è il luogo dove i libri si tramandano, ma dove tra loro dialogano. Il libro è una grande invenzione come la ruota, ha detto il teologo Romano Guardini».

C’è ancora la passione per la biblioteca?

«Oggi è un santuario dove vanno pochi adepti. Sembra quasi che ci sia un cortocircuito. Fahrenheit 451 di Ray Bradbury è stato profetico. I libri vengono bruciati e gli intellettuali li raccontano oralmente. A chi gli chiede cosa facciano rispondono: ricordiamo, in modo che, passato questo momento, ricorderanno i nostri figli, quando stamperanno dei libri in attesa che altri li brucino».

Non accade più.

«Va, però, ricordato il monito Umberto Eco: il libro non sopravvive al fuoco, ma al blackout totale sì».

Il problema è la rivoluzione elettronica?

«Una volta c’erano due pubblici: chi scriveva e chi leggeva. Con il web ognuno è editore di se stesso. Il sapere tramandato dalle biblioteche selezionava in base a certi codici. Oggi chi archivierà? Come? E che cosa?»

Restiamo al chi.

«Secondo Eco dovrebbe farlo l’università. Serve un sapere unificato, altrimenti rischiamo che ognuno si faccia la sua enciclopedia new age, il suo sapere personale. E si arrivi all’immagine di Eco: il bar mondiale, dove l’opinione di uno qualsiasi vale quella di un Nobel. Siamo "all’uno vale uno", mentre come diceva Eraclito, "uno solo, se è il migliore, vale diecimila"».

Cosa si rischia?

«Che la memoria vada perduta, che tutto sia fluido. Oggi dai 150mila morti di Covid, al cagnolino salvato, ai bambini che naufragano, tutto passa sull’homepage in poche ore. Cosa consegniamo di ciò che avviene? Tutto ormai è evento, brivido della sorpresa. Per questo invoco un’ecologia linguistica. Per anni abbiamo detto 'flessibilità' per disoccupazione, 'legge di mercato' per sfruttamento, 'economia sommersa' per lavoro nero. Abbiamo truccato le parole. Ma ora c’è stato un salto di qualità, sono state invase le istituzioni. Il primo governo gialloverde ha chiamato un decreto 'Dignità', una parola così grande. La 'pace' è il condono fiscale. Non vale più il motto catoniano rem tene, verba sequentur. Di fronte a un mondo smaterializzato, dove non abitiamo più terra e cielo, ma Google earth e cloud, la parola non può più tenere dietro alla cosa».

Nel libro cita parole ormai sostituite. Maestro da influencer, discepolo da follower.

«"Maestro", la parola più bella del mondo, viene da magis, era il sacerdote principale, circondato da due ministri, che valevano meno. Oggi abbiamo capovolto. Ma non sarà più importante un maestro che sull’Appenino insegna a un bambino a leggere e scrivere di un ministro che sta lì sei mesi e non sa neanche perché?»

Il suo maestro ricorda don Milani.

«"Chiamo uomo chi è padrone della propria lingua", ha detto. Punto. A una persona si può togliere tutto, ma non la parola».

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