domenica 7 agosto 2022
La 23ª edizione della rassegna affronta il tema dell’ignoto. Ma è solo lo scienziato il detentore dei segreti del mondo: il religioso e lo spirituale sono radicalmente esclusi
Una sala di “Unknown Unknowns”, 23ª edizione della Triennale

Una sala di “Unknown Unknowns”, 23ª edizione della Triennale - -

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Negli anni Cinquanta gli psicologi americani Joseph Luft e Harry Ingham, elaborando uno strumento interpretativo delle dinamiche di comunicazione interpersonale, coniarono il concetto di ' unknown unknowns', tradotto solitamente in italiano con 'ignoto' ma che letteralmente significa gli 'sconosciuti sconosciuti', ossia ciò che non sappiamo di non sapere. Questo campo comprende le informazioni ignote sia al soggetto che agli altri, eppure essenziali nella definizione della personalità e dei rapporti. Muove da qui la 23ª Triennale di Milano (aperta fino all’11 dicembre), intitolata 'Unknown Unknowns. An introduction to mysteries', ossia 'una introduzione ai misteri'. Quest’ultimo termine sembra ritornare qui alle origini, quando mysterion indicava ciò che riguarda il mystes, l’iniziato. Ma non si tratta più di riti segreti, non è più la sfera del religioso il portale di accesso alla struttura profonda della realtà: ora è lo scienziato l’iniziato, il detentore dei segreti del mondo. Ma questa iniziazione, questo saper scrutare dentro e attraverso le cose, gli preserva e conferisce però - con una interessante saldatura - l’aura della figura sacerdotale, se non oracolare. 'Unknown Unknowns' è costituita da una vasta 'costellazione' di mostre (tra cui 23 padiglioni nazionali) e installazioni, per oltre 400 personalità tra designer, artisti, architetti e scienziati. La mostra principale, curata da Ersilia Vaudo, dà il titolo all’intera manifestazione ed è anche la più stimolante. L’esposizione, come spiegano i testi introduttivi, «affronta il tema dell’ignoto e ci coinvolge in un viaggio attraverso mondi sconosciuti: dall’universo più lontano alla materia oscura, dal fondo degli oceani all’origine della nostra coscienza». È un viaggio che incrocia scienza e arte, sebbene la prima spesso sia in grado di suscitare un senso di meraviglioso più della seconda, come se avesse eroso anche il suo campo nella capacità di attivare esteticamente l’immaginario. Un viaggio anche non privo di controsensi, dato che a rigor di logica su ciò che non sappiamo di non sapere non potremmo neppure parlare, che non vuole «cercare risposte» ma invita «ad aprirsi a punti di vista nuovi dove l’ignoto diventa una dimensione da vivere, come occasione di stupore e trasformazione». Il religioso e lo spirituale (sia detto senza tentazioni concordiste) di fronte a questo mistero sono radicalmente esclusi: eppure il magico e il metafisico affiorano. Il caso più intrigante è la definizione della gravità come «il primo e più grande designer», la cui opera è «nascosta nella perfezione delle forme sferiche dei corpi celesti». Affascinante, ma pensare la gravità come designer non implica instillare la suggestione di una intenzionalità progettuale? La forza fondamentale è «un artigiano che, con la sua mano, instancabilmente model- la il contenuto dell’universo cui apparteniamo, determinato nella sua ricerca di perfezione». È qualcosa che assomiglia al Dio geometra (e forse un po’ anche al 'grande architetto' massonico) e che ricorda in un certo senso la linea platonizzante di Roger Penrose: «Sia come sia - scrive il premio Nobel in La strada che porta alla realtà - è sicuramente vero che tanto più profondamente scandagliamo i segreti della Natura, tanto più profondamente siamo spinti nel mondo platonico delle idee matematiche mentre cerchiamo di capire ». E senza dubbio agli occhi profani le formule matematiche attraverso cui gli scienziati descrivono la realtà hanno una bellezza intrinseca: non quella della chiarezza ma, all’opposto, il fascino dell’arcano. Le equazioni come nuovi tarocchi? La mostra 'Mondo reale', a cura di Hervé Chandès, direttore artistico della Fondation Cartier pour l’art contemporain, 'controparte' dedicata alle arti visive della mostra principale, porta alla luce lo charme dell’opacità della scienza al suo massimo nitore. Tra le opere troviamo infatti una serie fotografica di Jessica Wynne dedicata alle lavagne utilizzate per i calcoli dai principali matematici e fisici del nostro tempo, mentre Jean-Michel Alberola ha filmato la mano di Cédric Villani mentre con il gessetto illustra la congettura di Cercignani. Per quanto intrinsecamente privi di ambiguità e potenzialmente accessibili a tutti, questi segni e gesti restano agli occhi dei non iniziati custodi di una misura sapienziale, non diversamente dai geroglifici. Sebbene siano la traccia di una ricerca, sono percepiti visivamente (e quindi c’è anche chi pulsionalmente li rifiuta) come una verità oggetto di fede. È forse anche colpa di una scienza che a lungo si è percepita e si è raccontata (e spesso ancora si percepisce e si racconta) come una fiaccola trionfante sul buio dell’ignoranza. Una scienza con pochi dubbi. Ma il fatto che esistano 'cose che non sappiamo di non sapere' comporta che il tutto è inconoscibile. Ogni scoperta non erode l’ignoto, ne aggiunge altro come una porta che si apre su un dedalo di corridoi. Il mistero non è solo la parte mancante, quella ancora inaccessibile. Più a fondo è l’elemento irriducibile, l’eccedente a ogni definizione, l’imprendibile. Lo diceva bene Shakespeare per bocca di Amleto: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia».

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