venerdì 22 aprile 2022
Il Padiglione italiano per la prima volta è affidato a un solo artista: una riuscita, amara installazione sul “fallout” del boom industriale, tra Pasolini e Tarkovskij
Gian Maria Tosatti, “Storia della Notte e Destino delle Comete”, Padiglione Italia 2022

Gian Maria Tosatti, “Storia della Notte e Destino delle Comete”, Padiglione Italia 2022 - courtesy MiC

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Sfugge alla definizione di opera d’arte Storia della notte e Destino delle comete, con cui Gian Maria Tosatti (1980) ha interpretato gli spazi immensi del Padiglione Italia. È la prima volta che la rappresentanza italiana è affidata a un solo artista, una sfida lanciata dal curatore Eugenio Viola e raccolta dalla direzione generale Creatività contemporanea del ministero della Cultura. Installazione ambientale e immersiva (ma senza escamotage digitali: quello che vediamo e attraversiamo è frutto di una ricerca tra stabilimenti dismessi o smontati), di proporzioni colossali, divisa in due “atti” – a rimarcare la componente teatrale, dove l’attore-protagonita è lo spettatore – è un viaggio amaro nell’illusione dell’Italia industriale.

Riprendendo la riflessione di Pasolini, allora in tempo reale, Tosatti misura il fallout del boom industriale. La questione ambientale, così urgente oggi, è solo una delle conseguenze. Ma non è semplicemente un problema politico o sociale, per quanto i temi siano presenti. Tosatti come da sua prassi, di nuovo seguendo idealmente Pasolini ma con una estetica che guarda soprattutto a Tarkovskij, allarga il piano su una dimensione che è difficile non definire come “sacra”.

Lo si capisce fin dall’ingresso, una baracca in lastre a onduline (evidentemente non lo sono, ma è istantaneo identificarle come Eternit) con all’interno una timbratrice di cartellini: sulla porta è esposta una segnaletica da lavoro con scritto «Silenzio!», non così diversa dalle targhe nelle sacrestie. Si accede così al primo di una sequenza onirica di ambienti: un’officina, chiusa da una grande vetrata come una cattedrale. Gli operai non ci sono più, rimangono i resti di una liturgia della quale si è persa la lingua: i macchinari inerti e misteriosi, come una schola cantorum nel mezzo di una navata mentre una radio rimanda, intercettandoli da un tempo lontano, frammenti di cori di un rito che sacrificava i suoi officianti.

L’operazione è credibile ed efficace perché Tosatti riconosce la natura industriale degli ambienti dell’Arsenale che ritornano a essere in un certo senso se stessi e contemporaneamente spazio di un’esperienza estetica. Il secondo ambiente produce uno slittamento, tipologico e temporale, un cubo in policarbonato grigio e neon, con aspiratori come budella che pendono dal soffitto. Una scala porta quindi a un appartamento vuoto, carta da parati anni 70, lumi fiochi al soffitto, un telefono a parete, un letto con le reti a molla e l’ombra della croce sopra la testiera.

Dalle finestre ci si affaccia su un laboratorio tessile: una griglia ordinata di tavoli, macchine da cucire, sgabelli, un crocifisso alla parete. Ma non c’è più nessuno, né padroni né operai. Non ci sono nemmeno i fantasmi. Li ha dismessi lo stesso sogno al quale lavoravano alacremente. L’industria pesante, il chimico, il manifatturiero: Storia della notte è un viaggio in un mondo imploso su se stesso. Un mondo durato pochi decenni, finito soltanto ieri e già alle soglie dell’incomprensibilità. Un mondo che ha prodotto il nostro presente, anzi se lo è divorato.

L’approdo, come per ogni fabbrica, è un magazzino. Il luogo dove i prodotti attendono di partire. Ma è un magazzino vuoto, sospeso. Al suo centro però si apre una “zona” tarkovskijana. Tosatti mette il mare dentro l’Arsenale. Già Andreotta Calò, due edizioni fa, aveva portato l’acqua nel Padiglione Italia, con un lago ctonio e liminale. Questo è un mare vero, una massa scura in movimento, sulla quale si allunga un molo. Dei lampioni fanno luce ma non illuminano. Sul fondo però si accendono intermittenti dei punti luminosi. È il secondo atto, Destino della comete, ispirato al celebre articolo pasoliniano sulla scomparsa delle lucciole: «Io darei l’intera Montedison per una lucciola».

In questo finale il curatore Eugenio Viola vede un segnale di speranza, con le lucciole che «tornano come elementi salvifici ma fragili, opportunità lanciate come guide, “fugaci bagliori nelle tenebre” a condurci fuori da un nuovo diluvio». Ma se questa visione è «un mondo in cui la Natura ha ripreso il suo dominio e ripristinato la sua crudele legge di suprema bellezza e armonia», come lo descrive Viola nel catalogo (Treccani), allora è un mondo senza uomo, e quindi non può essere neppure dotato di bellezza dato che non c’è nessuno sguardo che la possa riconoscere. Sotto questo punto di vista in effetti non c’è reale differenza tra la prima parte e il finale: l’uomo resta assente, è stato cancellato.

Più che una nota di speranza sembra allora risuonare una pulsazione profonda che volge la tragedia di Storia della notte in malinconia. Viola riprende Didi-Huberman, che dalla luce intermittente e dalla danza delle lucciole trae la possibilità di una epifania dell’immagine contro la tentazione della disperazione. Tosatti resta forse più fedele non soltanto al pessimismo pasoliniano ma soprattutto al suo istinto apocalittico. «Ho imparato – scrive l’artista nel catalogo – che la natura guarisce. In poco tempo. In trent’anni. Si rigenera. Ma non ci perdona».

Si resta soli sul molo deserto, nella notte, davanti a un mare nero. Alle nostre spalle l’industrializzazione che aveva spezzato non solo l’equilibrio ma l’incanto del mondo promettendo una inedita società di benessere tecnologico si è ridotta a larva e maceria. Ma proprio in un ambiente industriale riconquistato dalla natura l’incanto si prende un nuovo spazio. Le luci sono distanti, troppo lontane perché possano raggiungerci. Non c’è nessuna barca che ci traghetti ad Avalon. A meno di non avere abbastanza fede per camminare sulle acque.

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