sabato 13 luglio 2019
Ernesto Ferrero ne fu amico e compagno di molte vicende editoriali: «La metafisica, per lui, consisteva nel confronto con l’infinitamente grande e con l’infinitamente piccolo»
Ernesto Ferrero

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La tregua di Primo Levi fu il primo libro che il giovane Ernesto Ferrero si trovò sulla scrivania nel 1963, appena assunto all’ufficio stampa Einaudi. Era l’avvio di un’avventura poi culminata, da lì a qualche mese, nella vittoria al premio Campiello. Ed era, più che altro, l’inizio di una lunga amicizia, che si è espressa anche in quella che, parafrasando Contini, si potrebbe definire una lunga fedeltà critica ed editoriale. Di Levi, negli anni, Ferrero ha curato antologie e biografie, per Levi ha stilato prefazioni e cronologie. Anche nel suo libro di memorie prevalentemente – ma non esclusivamente – einaudiane, I migliori anni della nostra vita, la figura di Levi ricorre a più riprese, in un continuo alternarsi di situazioni pubbliche e private. Se gli si chiede quella che più gli è rimasta impressa, Ferrero (storico direttore del Salone del Libro di Torino scrittore a sua volta: ha vinto lo Strega nel 2000, a settembre uscirà da Einaudi il nuovo Francesco e il Sultano) non ha esitazioni. «La cavia di peluche», dice.

Scusi?

È il regalo che Levi portò a mia figlia Chiara, che allora era una bambina, l’unica volta che riuscimmo ad averlo a cena da noi. Una scelta che a me sembrò e continua a sembrare magnifica. Voleva dirle non solo che lui era stata la cavia del più mostruoso esperimento mai realizzato dall’uomo, l’annientamento della personalità prima dell’eliminazione fisica, ma anche che ogni essere vivente, anche il più umile, è degno di curiosità e di attenzione, può essere fonte di meraviglia.

Levi era noto per il suo carattere riservato, mite…

Per la sua sensibilità e delicatezza, aggiungo. Era la summa delle qualità che ci auguriamo di trovare in un amico. A volte ti veniva da domandarti se era proprio vero. C’erano in lui una disponibilità, una modestia persino eccessiva. Senza volerlo, ha finito per avvalorare l’immagine dello scrittore della domenica, del chimico che si dedica alla letteratura nel tempo libero, mentre era un professionista fatto e finito, che si era costruito un lessico raffinato, di una estensione eccezionale. Proprio per eccesso di riserbo non è mai stato un buon promotore di se stesso. Poi per fortuna è arrivato il riconoscimento internazionale…

Si riferisce alla famosa intervista raccolta da Philip Roth nel 1986 per il “New York Times”?

Sì, prima l’apprezzamento di Saul Bellow per Il sistema periodico, poi l’incontro con Roth a Torino. Li ho portati a cena al Cambio, c’era anche Claire Bloom, allora moglie di Roth. Forse è stato l’ultimo momento di felicità, per Primo. Per e- ducazione e temperamento non amava mettersi in mostra. Era molto restio alla componente di protagonismo ed esibizionismo implicita in ogni presa di posizione pubblica. All’occorrenza, però, era capace di esprimersi con estrema chiarezza e perfino con durezza, come quando condannò il Governo israeliano per Sabra e Chatila. Nonostante questo, il suo ideale di vita non era certo quello del tribuno. Conduceva una vita appartata, divisa tra la casa, l’ufficio e amici fidati, con cui condividere la passione per la montagna, ma gli piaceva ascoltare e raccontare. Mai una parola di troppo, anche nel rapporto con l’editore. In Einaudi quello che riguardava Levi viaggiava di norma sul filo dell’implicito, anche perché i suoi manoscritti erano impeccabili. Non c’era nemmeno una virgola da toccare.

Ma così non si correva il pericolo dell’incomprensione?

Ce ne furono, inutile negarlo. La più grave riguardò i racconti di Storie naturali, per i quali nel 1966 gli fu consigliato di adottare uno pseudonimo. Fu una ferita anche il rifiuto delle poesie di Ad ora incerta, che poi approdarono da Garzanti nel 1984. E sì che dieci anni prima, nel 1975, era uscito Il sistema periodico.

Perché considera tanto importante quel libro?

Perché dimostrava, senza ombra di dubbio, che Levi era uno scrittore: un grandissimo scrittore, anzi. Personalmente resto convinto che lo sarebbe diventato comunque, anche senza l’esperienza tragica di Auschwitz, dove è andato con proprio con l’occhio dello scrittore. Sappiamo che l’idea di Carbonio, il geniale racconto che chiude il libro, era maturato negli anni del liceo. È il documento di un’attitudine irripetibile, grazie alla quale una capillare conoscenza scientifica ( Carbonio, com’è noto, è il resoconto delle metamorfosi di un singolo atomo nel tempo e nello spazio) si organizza in scrittura, con un esito nuovo e sorprendente. Ma non va sottovalutata la sua inesauribile e divertita curiosità linguistica, ad esempio per la capacità di riprodurre le cadenze del dialetto in La chiave a stella. Era anche un divulgatore di eccezionale efficacia, come dimostrano le ancora inedite Lettere scientifiche a una gentile signora, nelle quali spiegava le leggi della fisica attraverso gli avvenimenti minuti della vita quotidiana. Lo dico con convinzione: in Levi non ci sono opere minori, ogni testo è di una compiutezza ammirevole. Profondo e gradevolissimo.

Ma lei avrà qualche preferenza, no?

Sono molto legato a I sommersi e i salvati, un libro fondamentale per comprendere non solo Auschwitz, non solo il Novecento nella sua interezza, ma più in generale il funzionamento delle società umane. In quel 1986 ero tornato in via Biancamano con il ruolo di direttore editoriale. L’Einaudi era appena uscita dal commissariamento, aveva bisogno di ritrovare la sua identità. Ed ecco che un giorno Levi arriva con questo manoscritto. Mi sono presto accorto che era il risultato di una riflessione maturata per quarant’anni. Un approfondimento condotto con un rigore estremo, anche verso se stesso, e con una lucidità implacabile, anche verso una certa retorica della memoria. I ricordi, sosteneva Levi, non ci restituiscono mai un’immagine esatta del passato e di conseguenza devono essere sempre messi in dubbio, verificati, interpretati.

Levi era veramente un antimetafisico, come è stato sostenuto?

Lui stesso ha detto che aveva il «senso oceanico» del mistero, che si esprimeva in uno stupore riverente davanti alle meraviglie del cosmo. Non era affatto un nichilista, tanto meno un catastrofista. Fino alla fine, ha dato credito all’homo faber, che combina disastri ma poi riesce a trovare un rimedio. La metafisica, per lui, consisteva nella continua tensione della ricerca, nel confronto con l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.

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