giovedì 4 marzo 2021
Il 5 marzo cade il centenario della nascita del grande scrittore che ebbe successo con il primo romanzo ma venne presto emarginato dalla critica
Lo scrittore Dante Arfelli

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Ho incontrato Dante Arfelli nella clinica di Ravenna presso cui grazie al vitalizio della legge Bacchelli aveva trovato asilo. Era il marzo del 1993 e portavo con me alcuni pacchetti di sigarette e delle stecche di cioccolato, dopo aver saputo che erano per lui preziose risorse di cui temeva di restare sprovvisto. Mi trovai di fronte un vecchio curvo e malfermo sulle gambe, che mi fissava con un’espressione smarrita. La sigaretta gli tremava fra le dita mentre gli rivolgevo qualche domanda sull’imminente pubblicazione di Ahimè, povero me, una sorta di diario del suo interminabile viaggio dentro le fobie e le vertigini, le 'voci' della malattia mentale che lo aveva inghiottito. Ma vinto l’iniziale timore si mostrò desideroso di ripercorrere insieme le tappe di un percorso cominciato con lo straordinario successo raggiunto oltre quarant’anni prima. «Un’opera amara, cruda, aspra, anche disperata, se dal fondo della sua chiusa tristezza non si levasse una trepida luce di umana simpatia»: con questa motivazione una giuria di alto livello, composta tra gli altri da Pancrazi, Palazzeschi, Giani Stuparich, nel 1949 gli aveva assegnato il Premio Venezia, antesignano del Campiello, per I superflui, il suo romanzo d’esordio, scritto di getto nell’estate precedente.

Insieme all’assegno di mezzo milione, cifra enorme per lui, di condizioni economiche tanto modeste da doversi far prestare abito e scarpe per la cerimonia, Arfelli otteneva una fama insperata. Poteva staccarsi dalla quieta provincia romagnola, (era nato a Bertinoro, nel 1921) per affacciarsi negli ambienti culturali romani, incontrarvi vecchie conoscenze come Marino Moretti e Federico Fellini, suo compagno di liceo a Rimini, e farsi nuovi amici. I superflui, pubblicato da Rizzoli e poi riedito da Vallecchi così da toccare le 100 mila copie, veniva tradotto in vari paesi con riscontri di vendite e critica, specie in Francia e negli Stati Uniti, che possono vantare pochi scrittori italiani di sempre. Solo negli USA l’edizione economica per l’editore Scribner’s, lo stesso di Hemingway, raggiunse le 800 mila copie. Uscito nel pieno della stagione neorealista, il romanzo se ne distacca in modo netto. Luca, il protagonista, è un provinciale che nell’immediato dopoguerra va a cercare fortuna in una Roma sottomessa all’arbitrio dei potenti. L’unica persona che gli offre un pur ambiguo e contrastato affetto è Lidia, una giovane prostituta con cui condivide un misero alloggio e le illusorie ambizioni di riscatto, ma più ancora un incolmabile vuoto esistenziale, un sentimento di esclusione e impotenza.

Proprio questa visione scevra di ogni retorica o fervore populista procurava a I superflui i più convinti riconoscimenti da parte della critica straniera. Antony West, sul 'New Yorker', parlò di 'generazione bruciata'; i critici francesi di una 'rinascenza letteraria italiana', di fronte a una vicenda incentrata sull’alienazione dei due personaggi, respinti da un mondo che avvertono estraneo se non ostile, molto oltre le problematiche sociali che pure li affliggono. Anche per questo ero molto curioso di sapere da Arfelli come avesse maturato quella storia e lo stile asciutto e scarno con cui è condotta. La risposta fu che si era formato sulle commedie di Arthur Miller e di Tennessee Williams, si era sempre sentito più vicino a London ed Hemingway, Faulkner e Caldwell, piuttosto che agli autori italiani. Con La quinta generazione, pubblicato nel 1951, l’autore romagnolo non ebbe pari fortuna, ma la sua fama era ancora viva quando sparì bruscamente dalla scena.

Cominciava così un silenzio che venne definito emblematico da chi ne attribuiva la responsabilità alla società letteraria nostrana, che non gli avrebbe perdonato il troppo rapido successo e la non omologazione. Eppure non è su questo terreno che ne va cercata la principale ragione, come mi confermò lo stesso Arfelli con voce malferma. Verso la metà degli anni 50 era caduto in preda a una grave forma di nevrosi depressiva che gli avrebbe piegato il corpo e offuscato la mente, e che solo negli ultimi tempi gli aveva concesso la parziale tregua in cui si svolse anche il nostro incontro, prima della sua scomparsa che sarebbe sopravvenuta solo due anni dopo. L’auspicio è che il centenario della nascita di questo singolare e sfortunato autore possa diventare occasione per riportare nelle librerie i suoi romanzi, che dopo una riedizione da Marsilio di quasi trent’anni fa sono di nuovo introvabili. Per riscoprire pagine che conservano ancora intatta la loro forza, nell’originalità della cifra stilistica e nell’esemplare rappresentazione di quegli esseri umani che oggi come allora si sentono e vengono reputati superflui, destinati come tali a soccombere in una società indifferente alla loro sofferenza e solitudine.

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