mercoledì 26 ottobre 2016
Lo psichiatra Tonino Cantelmi: «La connessione ha sostituito la relazione. Ma i social illudono e ci lasciano più soli. E non possono placare il bisogno dell’uomo di incontro reale col prossimo»
Cyber-dipendenti, i nuovi schiavi del Web
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Se ormai non ci sorprendono più i bimbi sul seggiolone intenti a smanettare tablet e cellulari, non per questo dobbiamo rassegnarci ai rischi di una società incapace di vivere senza connettersi. Una realtà che deve necessariamente spingere alcune discipline umanistiche a cambiare approccio. Ne è convinto da tempo lo psichiatra e psicoterapeuta Tonino Cantelmi, che ha introdotto in Italia i corsi di cyber-psicologia e da anni mette in luce i pericoli della Rete, come nel volume La pietra della follia con Chiara D’Urbano (Città Nuova, pp. 206, euro 14).
Già negli anni Novanta lei parlava di dipendenza dal Web...
«C’è ancora chi pensa che Internet sia uno strumento come gli altri. E invece la tecnologia digitale è un mondo da abitare che ci modifica radicalmente: cambiano le dimensioni affettive, volitive e cognitive dell’uomo. È una vera mutazione antropologica. Ho lanciato i corsi di cyber-psicologia, quest’anno all’Università Europea di Roma, perché i futuri psicologi prendano atto che l’impatto della tecnologia sulla mente è devastante. Prendiamo lo sviluppo dei nostri bambini. Non si può più studiare come gioca il bimbo oggi rispetto a dieci anni fa. Abbiamo uno sbilanciamento sulla dimensione percettiva del bambino prima e dell’adolescente poi esposto precocemente ad esempio ai videogiochi. I nativi digitali sono rapidi e “geniali” nell’apprendere a usare un iPhone, ma meno attenti e capaci di memorizzare. Non conoscono i nostri percorsi di ragionamento e accumulazione dati e possono fare fatica ad acquisire alcune competenze scolastiche di base».
Quello del Web è un mondo parallelo?
«Quando parliamo di reale e virtuale diciamo una grande sciocchezza. Il virtuale può essere molto reale. Viviamo ormai su due registri contemporaneamente. Coloro che sono incapaci di vivere l’esperienza digitale sono i disadattati del terzo millennio. Al contrario quelli che vivono solo il digitale sono i nuovi schiavi, tra cui molti adolescenti ma anche tanti adulti incapaci per esempio di corteggiare una donna se non attraverso chat o social».
La relazione è stata sostituita dalla connessione?
«Sì, perché è più facile e appare più soddisfacente: consente espressioni narcisistiche di sé, esalta l’emotivismo, è provvisoria e senza garanzie di durata. Una relazione autentica implica invece un grande lavoro, interesse per l’altro, voglia di mettersi in discussione e di crescere. Il problema è che dopo la sbornia di relazioni digitali uno si trova più solo di prima. Gioca un senso illusorio di onnipotenza per cui tutto sembra alla nostra portata. Ma quel che sembra ci abbia liberato in realtà ci ha reso schiavi. La tecnologia ci consente di stare sempre connessi, di creare una società che non stacca mai la spina. Sempre lì a twittare, condividere, senza più differenze tra giorno e notte, tra feriale e festivo, tra casa e ufficio, viaggiamo verso una colossale dipendenza dalla connessione».
Sembra davvero più importante “condividere” che vivere.
«I social ci hanno abituato a vivere l’esperienza socializzandola. Chi è mio amico? Non è quello con cui faccio esperienza, ma colui con il quale condivido ciò che vivo. E difatti la ricerca del “mi piace” a tutti i costi è il trionfo del narcisismo digitale. Per un “like” siamo disposti a tutto anche alle perversioni. Non a caso facciamo i conti con un progressivo abbassamento della soglia del pudore. E sarà sempre peggio perché i social ci spingono a rappresentare noi stessi con l’unico obiettivo di ottenere consenso. Più le rappresentazioni sono coinvolgenti, estreme ed emotive, più ottengono grande consenso».
La condivisione può diventare arma di ricatto. La cronaca ci riserva di continuo episodi dai risvolti tragici.
«Umberto Eco aveva parlato di stupidità, io dico che il Web può essere anche molto crudele. E non perdona perché la memoria digitale che ha sostituito tutte le nostre memorie è indistruttibile. Purtroppo i grandi padroni del Web fanno poco per impedire la circolazione di certi contenuti. Il cyberbullismo esprime in maniera stratosferica la possibilità di infliggere un dolore. Mi ha sempre però sorpreso la risposta sincera “ma io non pensavo di fare tanto male”. C’è una perdita di percezione delle conseguenze del proprio agire: l’eccessiva virtualizzazione produce l’irresponsabilità. Credo che la scuola possa e stia facendo tanto nella lotta al cyber-bullismo. Poi sia chiaro non possiamo demonizzare il Web. Lo vorremmo solo più “umano”. È come dare ai bimbi un missile in mano, vanno educati».
Lei sostiene da sempre che per aiutare i giovani dobbiamo rieducare gli adulti, sottolineando la responsabilità dei genitori.
«A noi genitori fa molto comodo silenziare i nostri figli piccoli dandogli in mano un cellulare. Siamo noi per primi a infrangere le regole, pranzando con lo smartphone a tavola... È il tempo degli “adultescenti” dai profili più seduttivi e competitivi dei propri figli. Da anni abbiamo rinunciato a educare, perché educare vuol dire riscoprire il valore della relazione, del farsi carico dell’altro per trasmettergli valori e visioni della vita. Questo richiede una capacità di “stare” con i figli. E invece oggi perdiamo occasioni perché noi per primi diamo ai ragazzi il tablet piuttosto che stare con loro».
Cambiano i luoghi per socializzare, dai corridoi della scuola, le piazze, i bar, l’oratorio agli spazi virtuali…
«Peccato che i ragazzi poi abbiano più amici sui social che nella vita di tutti i giorni. La socializzazione del Web ci illude e ci impoverisce sulla capacità di creare delle relazioni affettive costruttive e stabili nel tempo. E non a caso la depressione secondo l’Oms nel 2020 sarà la patologia più diffusa. Viviamo nel pieno di un paradosso: la quantità e la modalità di navigazione in Rete ci dicono che abbiamo bisogno di contatti, siamo schiacciati dalla solitudine, da uno stile che non ci consente di entrare in contatto profondo con noi stessi e con l’altro».
Da dove ripartire allora?
«Una risposta di senso al bisogno di ritrovare noi stessi è il recupero della spiritualità. E allo stesso tempo urge un ritorno alla solidarietà concreta, l’incontro reale col prossimo, per condividerne timori, sogni e debolezze. I social non possono placare l’irriducibile bisogno di incontro con l’altro proprio dell’uomo di ogni epoca. La speranza è una dimensione psicologica interpersonale. Si costruisce nella relazione: il bambino impara a sperare nelle prime relazioni. Non c’è altra via che ripartire dalla capacità di relazioni autentiche».

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