venerdì 30 luglio 2021
Accanto ai più celebri racconti, lo scrittore compose anche narrazioni più ampie: come il romanzo corale “Ombre sullo Hudson”, uno dei suoi capolavori, ora tradotto in italiano
Isaac B. Singer (1902-1991) vinse il Nobel per la Letteratura 1978

Isaac B. Singer (1902-1991) vinse il Nobel per la Letteratura 1978 - Archivio

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È meritoria la ripubblicazione che Adelphi sta facendo delle opere meno conosciute o comunque da riscoprire di un grande scrittore, premio Nobel per la Letteratura, del calibro di Isaac Bashevis Singer, soprattutto perché riesce a mettere in luce un nuovo aspetto, almeno per l’Italia che dal punto di vista critico, lo ha considerato soprattutto come grande narratore di racconti. Certamente Singer è uno dei maestri della narrazione breve del Novecento, ma isolarlo solo in quella direzione non rende giustizia alla complessità e alla forza della sua arte narrativa. Così queste riscoperte di testi inediti o di traduzioni di romanzi che da anni non erano più ripubblicati, nella solida e competente direzione di Elisabetta Zevi, ci permettono di indagare anche un altro Singer, che non è certo minore a quello dei racconti, anzi mostra quanto ampia e sempre all’altezza di una rigorosa ricerca espressiva, non solo nel ricordare gli aspetti di una tradizione ebraica, lontana nel tempo, che Singer interpreta con ironia, disincanto, ma anche mostrando la frattura tra un mondo che si è estinto e che cerca di vivere nella memoria e una contemporaneità che si interroga su ciò che di quella tradizione può ancora nutrire l’ebreo contemporaneo, dopo che i venti feroci della Storia hanno inflitto il segno di un dualismo che non è più possibile riportare ad unità. Così tra i libri ritrovati di Singer troviamo questo Ombre sullo Hudson (pagine 638, euro 24,00), che ad una lettura più attenta e consapevole, soprattutto all’interno del suo percorso letterario, si scopre essere uno dei suoi capolavori, una di quelle opere che rimaste “sepolte” sulle colonne di un giornale, un quotidiano yiddish di Manhattan dove era apparso, a puntate, fra il 1957 e il 1958, non è mai stata tradotta e rivista in inglese dallo stesso Singer, per una successiva pubblicazione. Così con questo romanzo corale, seicento pagine che raccontano le ferite e le questioni aperte nella comunità ebraica dopo la voragine dello sterminio, cercando di superare un lutto che è continuamente insidiato da un senso di colpa, ma anche da una discussione interna su cosa significhi appartenere alla comunità ebraica, Singer mantenendo la sua ironia sulferea, indaga su una comunità americana, popolata più che da uomini, da ombre che cercano disperatamente di far fronte ad un destino che vedono sempre più labile. Così si trovano sempre più in balia di bufere interiori che li porteranno a sconvolgere le proprie vite, con scelte bizzarre, sbagliate, lasciandosi andare ad un balletto impietoso di avventure sentimentali parallele, cercando una propria unità e una propria identità, continuamente messa in crisi Singer mette in scena un romanzo che è anche un rapporto sullo stato di crisi di quegli anni, che evidenzia come non sia possibile voltare pagina, magari lo si può fare dal punto di vista del “contingente”, del carrierismo, delle scelte di facciata, ma poi rimane quell’opacità disperata che trama contro l’assetto interiore di ognuno. I protagonisti del romanzo sono polacchi, vengono da Varsavia, sopravvissuti alla tragedia e arrivano a New York, alla fine degli anni Quaranta, sulle rive dello Hudson, in una città che offre sì protezione e sicurezza, ma ancora non riesce a entrare nella logica che lacera i rifugiati, dilaniati da quell’enigma che è diventato Dio per loro, che forse non riesce ad intuire, nella sua lontananza da quell’Europa devastata, la portata delle ferite che questi rifugiati si portano dentro, non riesce, nonostante offra un mondo di dorata ricchezza, ad allontanare quei “demoni” che si annidano nei ricordi. Protagonista e personaggio tragico, nella sua ambivalenza e nel suo dramma, è Hertz Grein, che è stato anche insegnante di di Talmud e Torah e ora, a New York, è mediatore di borsa a Manhattan, uomo che alterna una profonda religiosità ad un altro irrefrenabile richiamo sensuale, che spesso lo pone in contraddizione con se stesso, alternandosi tra la moglie virtuosa e due amanti, Esther e Anna, figlia di Boris Makaver, impegnato nei suoi affari durante il giorno, ma con le notti assediate dal dolore fisico. Tanti altri personaggi incontriamo in questa vicenda, come un matematico convertitosi alla parapsicologia o il nipote comunista di Makarev. Diventa difficile raccontare un romanzo così ampio, dove a dominare sono racconto e riflessione, dove la dimensione del sacro entra in scena e sconvolge le vite, perché come sa benissimo Grein, un ebreo, anche se crede di essersi allontanato da Dio, non riesce a sfuggirgli. In questi tormenti si muovono queste ombre che Singer ha messo in scena e poi ha dimenticato, tanto che il romanzo è uscito in libro solo nel 1998, sette anni dopo la sua morte, e lo leggiamo proprio senza revisioni, con quello spirito dettato da un’illuminazione libera, quella che lo aveva portato a registrare il dramma di un tempo cruciale di passaggio. Lo dimostrano anche le sue libertà d’opinione, quel non negare certe verità sul comunismo e la questione ebraica, di cui si parla poco. «Solo in Europa ti rendi conto del senso della catastrofe – dice uno dei personaggi –. La gente è terrorizzata solo ad accennare quel che i comunisti hanno fatto in Russia agli ebrei…. Ti raccontano orrori tali che non riesci nemmeno ad ascoltarli, perché solo sentirli è come provare tutte le sofferenze di Giobbe».

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