martedì 12 gennaio 2021
Nel profetico sguardo di intellettuale sui tradimenti del pensiero progressista si individuano terreni fecondi di incontro col mondo cattolico
Bruno Trentin con la sua inseparabile pipa nel 2007

Bruno Trentin con la sua inseparabile pipa nel 2007 - Archivio Fotogramma

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La 'crisi della sinistra', intesa come il ritardo nel comprendere i mutamenti sociali e il cambiamento di bisogni e desideri delle persone, fino alla vera e propria 'eclissi', non certo delle ragioni, quanto dell’elaborazione culturale e della pratica sociale della sinistra.

È quanto emerge con forza nell’ultima parte dei diari (dal 1995 al 2006) di Bruno Trentin, raccolti in volume da Andrea Ranieri e Ilaria Romeo per i tipi di Castelvecchio ( Bruno Trentin e l’eclisse della sinistra, 184 pagine, 18,50 euro).

Pagine caratterizzate dallo «sconforto per l’inutilità» dei suoi sforzi di ricerca e militanza nella dirigenza del Pds-Ds, segnate da una profonda depressione personale, ma nelle quali l’analisi delle questioni politiche è lucida e tagliente. Giudizi e pensieri che ritrovano nella storia della Cgil e del Pci i punti di riferimento per dissezionare vicende politiche vissute nel passaggio di secolo, già prefigurando molte derive dell’oggi.

Bruno Trentin – partigiano a 17 anni con Giustizia e Libertà, entrato come ricercatore nella Cgil nel 1949 e iscritto dal ’50 al Pci, segretario generale della Fiom durante l’autunno caldo e della Cgil dall’88 al ’94 – in questo ultimo decennio di vita rievoca spesso le scelte controcorrente e lungimiranti di Giuseppe Di Vittorio.

Del primo leader del sindacato di Corso d’Italia ricorda in particolare il coraggio nel criticare l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, anche a costo di subire l’ostracismo di Togliatti e di buona parte dei sindacati della Federazione mondiale: questione di democrazia e di libertà da difendere. Nella sinistra italiana di fine anni ’90 e inizio 2000, invece, Trentin individua l’insorgere di due 'malattie' che oggi paiono cronicizzate: il leaderismo e il trasformismo.

Accanto al prevalere delle personalità sui programmi, infatti, a preoccupare il sindacalista erano la deriva della priorità data al tema e alla pratica della 'governabilità', la subalternità al pensiero liberista e «l’idea di un’egemonia che si conquista con l’occupazione della stanza dei bottoni», accantonando «i valori di liberazione da ogni forma di costrizione e della possibilità di autorealizzazione della persona. Alla difesa e promozione dei diritti dei governati si sostituiscono (...) quelli dei governanti».

Torna qui la lezione e l’eredità di Di Vittorio, di cui Trentin ha impressa l’idea che il sindacato non può essere subalterno rispetto al partito, non solo perché soggetto autonomo, quanto per la sua specifica natura 'politica': la rappresentanza di iscritti e lavoratori in generale. Ciò implica la responsabilità di elaborare e proporre un progetto proprio, che abbia al centro la libertà a tutto tondo dei dipendenti e dei cittadini. «Del binomio libertà-uguaglianza da giovane davo più valore all’uguaglianza – spiegò una volta –. Ma oggi penso che, senza libertà, non è possibile nessuna uguaglianza».

La libertà, per Trentin, «presuppone informazione e conoscenza, che diventano i mezzi principali della sua affermazione. Per questo il nodo della conoscenza come fattore di inclusione acquista in quest’epoca un’importanza strategica. Conoscenza vuole dire prendere di petto l’autorità e dare contenuto alla libertà. Partecipazione alle decisioni attraverso la conoscenza e non partecipazione agli utili (nelle imprese)!».

Così, sul piano pratico, ad esempio, l’allora dirigente dei Ds chiede conto al segretario Piero Fassino: «Dove sono finiti (nel programma) i diritti individuali dei lavoratori? La scelta della formazione permanente... quale strada maestra per lottare contro l’insicurezza e la precarietà dei giovani, contro la marginalizzazione dei lavoratori anziani?».

È anche in parte la ribellione al falso concetto di meritocrazia, in voga anche nel Pds, che invece dovrebbe meglio guardare al concetto di «capabilità (capability) teorizzata da Amartya Sen». Questioni che per Trentin restano senza risposta in una sinistra in crisi fino all’eclisse.

Piuttosto, si individuano qui i terreni di un dialogo fecondo col mondo cattolico e con la dottrina sociale della Chiesa, che l’ateo Trentin coltivò in particolare con la comunità di Sant’Egidio e con monsignor Matteo Zuppi, allora parroco di santa Maria in Trastevere, a pochi passi dalla sua abitazione. Questa ultima parte dei diari si conclude nell’agosto 2006, un anno prima della morte. Rileggendola si avverte la mancanza – nella sinistra e non solo – di riflessioni capaci di andare oltre la contingenza politica. Assieme al rimpianto per quanto sarebbe potuto scaturire dal confronto dell’ex leader della Cgil con encicliche sociali come Laudato si’, Fratelli tutti e le tante riflessioni del mondo cattolico intorno a libertà, lavoro e centralità della persona.

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