venerdì 22 ottobre 2021
Considerato come un precursore, è forse più interessante leggerlo nel suo tempo: con lui la notte scende sulla stagione dei Lumi
Francisco de Goya, “El Aquelarre” (1797-1798)

Francisco de Goya, “El Aquelarre” (1797-1798) - Madrid, Museo Lázaro Galdiano

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Ci sono due grandi sordi nell’Europa dei Lumi: Beethoven e Goya. Di generazioni differenti – Beethoven nasce nel 1770, Goya nel 1746 ma morti a breve distanza: 1827 e 1828 – si ritrovano però allineati dall’accelerazione della storia prodotta da Napoleone. Sono personaggi colossali, saldamente inseriti nel pensiero illuminista ma dalle traiettorie divergenti (Beethoven resterà sempre ancorato a una visione positiva dell’uomo e all’ideale di fratellanza, Goya sfocia in un radicale pessimismo antropologico). Accomunati da un rapporto con l’arte libero e innovativamente individuale, ambedue sono stati letti come figure di rottura, avanguardisti ante litteram e in generale “anticipatori” delle istanze – estetiche ma anche morali – del Novecento. Ma se il processo di riconduzione della complessità della figura di Beethoven al proprio tempo è ormai consolidato, su Goya continua a gravare una prospettiva rovesciata, complice anche il fatto che la riscoperta del pittore spagnolo è avvenuta a opera di artisti – da Manet a Picasso ai surrealisti – che hanno riconosciuto in lui il precursore dell’inedito canone visivo che andavano costruendo. L’occasione per riportare Goya a se stesso è offerta dalla grande mostra che la Fondation Beyeler a Basilea ha recentemente aperto dopo rinvii a causa della pandemia (fino al 23 gennaio). Settanta dipinti e un centinaio tra disegni e incisioni – dai principali musei e molte rarità da collezioni private – ricostruiscono l’intero iter cronologico del pittore, coprendo in modo sistematico tutti gli ambiti: non solo i generi ma gli spazi sociali attraverso cui Goya si muove e opera. La complessità, persino l’ambiguità di Goya, ben ricostruita dall’imponente catalogo, è tale da apparire indirettamente un’immagine di un’epoca nel guado di capitali trasformazioni. Goya, la Spagna, l’Europa non sanno dove stanno andando. Avvertono la spinta al cambiamento, la assecondano, ne restano travolti. Cosa diciamo con Goya “pittore illuminista”? Davvero c’è un Goya artista ufficiale e un Goya “dissidente”? Il fatto è che la sua è una pittura stilisticamente molteplice anche in una singola frazione cronologica. Goya nasce come pittore rococò, e con rococò diciamo “veneto”: Tiziano e Tiepolo, ma non mancano le fiamme di un altro veneto come El Greco. Gradualmente però Goya si scopre pittore spagnolo, e con spagnolo diciamo el Siglo de Oro: Velázquez e Murillo, senza i quali non solo non si capisce la virata verso il nero e la riduzione cromatica ma nemmeno scelte compositive e iconografiche ( Majas en el balcón, capolavoro in collezione privata, raramente esposto e qui presente, fonte poi per Manet, rielabora le Dos mujeres en una ventana di Murillo). C’è una componente citazionista in Goya, capace di solleticare l’intelligenza degli spettatori e che spiega anche le particolari scelte espressive dei ritratti dei reali e, spesso, anche dei potentissimi protettori (come i duchi di Osuna e la duchessa d’Alba), membri dell’aristocrazia progressista. Altre volte Goya, come nei ritratti degli amici intellettuali illuministi, adotta un approccio stilistico più incline al realismo. Certamente in ogni caso il virtuosimo pittorico di Goya si muove al di fuori delle piste consolidate: in una lettera all’Accademia di San Fernando ribadisce come il modello di studio non deve essere l’antico ma la natura. Un elemento che si palesa in modo spettacolare nello studio della luce, condotto in una molteplicità di modi: diffusa, radente, mediata, artificiale, accecante...

Francisco de Goya, “La maja vestida” (1800-1807) Madrid, Museo del Prado

Francisco de Goya, “La maja vestida” (1800-1807) Madrid, Museo del Prado - Photographic Archive. Museo Nacional del Prado. Madrid

Negli anni si avverte però il crescere di una nota personale sempre più profonda all’interno del tema, anche quando è “dato”. È precoce nel celebre Manichino di paglia – che infatti tornerà decenni dopo precisamente connotato nella incisioni di Los disparates (“follie” o “idiozie”) – la sentiamo nella pittura religiosa, ambito in cui si nota sia un distacco sotto l’impegno professionale che pure porta a esiti notevoli (l’Annunciazioneper Sant’Antonio del Prado è una meditazione sull’Incarnazione attraverso la luce che da astratta si fa reale quando incontra i corpi) sia una appropriazione fino alla secolarizzazione: quando nel 1820 dipinge un autoritratto da malato con il medico Arrieta, che l’aveva salvato dalla morte, non solo come è stato scritto lo modella sull’iconografia della Pietà ma costruisce un vero e proprio exvoto laico, dotato di regolare iscrizione commemorativa, per testimoniare la guarigione ottenuta attraverso la scienza (là dove il non-cattolico Beethoven eleva invece un «santo canto di ringraziamento» alla « Gottheit », la divinità). L’ambito in cui si può seguire con maggiore facilità il tragitto di Goya è costituito dalle opere morali e satiriche in cui prende di mira la superstizione e l’irrazionalità. In questo filone, antico e frequentato nel passato recente ad esempio da Hogarth, Goya asseconda – con un talento shakespeariano per il fantastico unito all’ironia dello scettico – una lettura “manichea” dell’uomo: la luce dell’elemento razionale contro il buio dell’irrazionale che lo ricaccia nella sfera della bestialità. Rientrano in questi casi le acquetinte dei Caprichos (con l’incisione del sonno/sogno della ragione che produce mostri) dove il ritratto satirico di un’aristocrazia imbelle, del clero reazionario e della stupidità popolare gli valsero una denuncia all’Inquisizione, alla quale sfuggì ritirando la serie e donandone una copia al re Carlo IV (il quale doveva dunque apprezzarne i contenuti). In questo dualismo ricadono i sabba, gli stupri e gli omicidi da parte dei briganti ma anche le immagini di manicomi (prive di connotati critici o di pietas) e di selvaggi dediti alla antropofagia. I dipinti della collezione del marchese de la Romana, ambientati in grotte e caverne, nelle precisa separazione di buio e luce bianchissima sono manifesto della dicotomia tra ferinità e umanità. Ma il 1808, l’occupazione francese – quella Francia che degli ideali illuministi faceva bandiera – e sei anni di guerra d’indipendenza spagnola incrinano certezze. I crimini e le bestialità di quegli anni sono documentati nei Disastri della guerra. In queste incisioni (pubblicate postume) l’elemento morale resta fortissimo ma ha perso ogni manicheismo: tutto accade alla luce del sole perché è buio anche il pieno giorno. La guerra rivela a Goya che la verità dell’uomo è violenza. Beethoven nel 1804 aveva stracciato la dedica a Bonaparte sull’Eroica e proseguito per la sua strada. In Goya la crisi è più profonda. I lumi si spengono. Nella piccola Orazione nell’orto del 1819 tutto è notte, anche la tunica bianca di Cristo e le ali dell’Angelo. La satira e il racconto morale scivolano nella tragedia. L’uomo non è più un essere razionale ma appare schiavo del proprio istinto, arrivando ad apparire nel sembiante assai simile ai mostri generati dal sueño de la razón. Le sue opere diventano progressivamente un teatro brutale delle pulsioni umane, paragonabile solo a quello inscenato negli stessi anni da Von Kleist o da Buchner. Tribunali dell’Inquisizione, processioni di flagellanti, soldati, tauromachie: il linguaggio si fa sempre più espressionista. Negli anni Venti approda all’abisso delle “pitture nere”, realizzate per la propria abitazione privata dove si era ritirato nel 1819, e rievocate in mostra da un intenso video dell’artista Philippe Parreno. Caduto ogni velo, metafisico e filosofico, la terra è l’inferno, l’uomo follia. È dunque solo dopo la guerra, con la restaurazione radicale di Ferdinando VII, e solo per un breve tratto che si registra un Goya pubblico brillante pittore di ritratti (ma è difficile sfuggire alla sensazione che nel 1814 rappresenti con la sfrontatezza di un guappo il giovane re, il quale probabilmente apprezzò) e un cupo Goya privato. La guerra ha distrutto il sistema sociale ed economico che gli aveva garantito successo e ricchezza. Impossibile per lui riadattarsi alla nuova corte, né la corte ha bisogno di un artista guardato come opportunista politico. Realizza disegni satirici, ritratti di amici: si salvano in pochi. A 78 anni, nel 1824, lascia una Madrid forse mai così assolutista per Bordeaux. Realizza litografie di corride prive ormai di qualsiasi brivido eroico e in cui tori, toreri e pubblico sono massa in preda a una comune frenesia. L’opera finale di Goya è però un vibrante ritratto dell’amatissimo nipote Mariano. Nella luce, sempre salda sotto la mano tremante, l’ultima parola dell’anziano pittore è tenerezza.

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