martedì 30 marzo 2021
Nel suo nuovo studio l’esperto Lorenzo Vidino ricostruisce la presenza dell’organizzazione in Europa e America: «Un’influenza che va al di là della consistenza numerica degli affiliati»
Clientela  multietnica  al mercato  di Belleville  di Parigi

Clientela multietnica al mercato di Belleville di Parigi - Ap Photo/Michel Euler

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Carnagione chiara e occhi azzurri, per un certo periodo Pierre Durrani è stato uno dei musulmani più intervistati di Svezia. Aveva scoperto l’islam durante un viaggio in Pakistan, il Paese di cui il padre è originario, e dopo un periodo di studi in un centro d’eccellenza in Borgogna era entrato a far parte dei Fratelli musulmani, organizzazione ben radicata in Medio Oriente (è nata ufficialmente in Egitto nel 1928) ma da tempo presente anche in Europa e negli Stati Uniti. Per molti aspetti la vicenda di Durrani richiama infatti quella dell’afroamericano Abdur-Rahman Muhammad, che aveva aderito alla Fratellanza nella convinzione che l’islam fosse uno strumento di riscatto per i neri, salvo poi accorgersi che per i vertici del movimento la conversione di un bianco era considerata molto più utile alla causa. Sia Durrani sia Abdur-Rahman sono usciti dalla Fratellanza al termine di un ripensamento al quale hanno contribuito in modo determinante gli attentati dell’11 settembre 2001, una data indicata come punto di svolta da molti degli ex militanti interpellati da Lorenzo Vidino per Islamisti d’Occidente (Bocconi, pagine 310, euro 29,50), il saggio con il quale lo studioso italiano prosegue la sua esplorazione di una realtà tanto discussa quanto superficialmente conosciuta. «Specie per quanto concerne la loro attività nei Paesi europei e in America – spiega Vidino, oggi direttore del programma sull’estremismo della George Washington University – i Fratelli musulmani sono visti di volta in volta come potenziali terroristi o come interlocutori esclusivi nel dialogo tra l’islam e le società occidentali. Ma questi eccessi di pessimismo e di ottimismo non rendono conto di una situazione molto più problematica e complessa, che richiede anzitutto un ampio lavoro di ricerca».

Lorenzo  Vidino

Lorenzo Vidino - -

Lei come ha proceduto?

«Ho preso in esame i casi di abbandono della Fratellanza di cui ero informato, ne ho individuati altri, ho parlato direttamente con le persone coinvolte, ho operato tutti i riscontri possibili, ho scartato le fonti anonime, non ho pubblicato nulla che non fosse verificato. Alla fine mi sono concentrato su sette storie, ciascuna delle quali a suo modo esemplare».

E a quali convinzione è arrivato?

«Ho avuto conferma del fatto che, anche in Occidente, il ruolo della Fratellanza non possa essere sottovalutato, né tanto meno ignorato, specialmente in Paesi come Francia, Germania, Austria e Regno Unito. È una rilevanza che va al di là del mero elemento numerico, che conosciamo solo attraverso stime secondo le quali le affiliazioni effettive si misurano nell’ordine di migliaia o addirittura centinaia di unità su scala nazionale. Ma l’influenza esercitata è molto più vasta, si manifesta attraverso un’innumerevole serie di associazioni talvolta anche molto piccole e interessate a temi pratici apparentemente privi di valore politico, come potrebbe essere l’ampliamento del parcheggio nei pressi di una moschea. Se metti dieci Fratelli in una stanza, si dice, ne escono ven- ticinque sigle differenti. Non in concorrenza tra loro, però. Al contrario, gli scopi sono condivisi e sono molto chiari».

Possiamo elencarli?

«A partire dagli anni Ottanta, quando si comprende che la Fratellanza può radicarsi anche al di fuori dei Paesi arabi, si fissano tre obiettivi ben definiti. In primo luogo, si punta a fare in modo che le comunità musulmane presenti in Occidente adottino la visione caratteristica dell’organizzazione, che punta così a qualificarsi come leader dell’islam locale. Nello stesso tempo, si capitalizza questa posizione preminente all’interno della comunità musulmana per assumere la funzione di rappresentante e portavoce nei confronti delle autorità civili e dell’opinione pubblica. Infine, a un livello più alto, si punta a esercitare una pressione sempre più significativa sulla politica dei rispettivi Paesi in materia di islam, sia per i provvedimenti sul territorio sia per la prospettiva internazionale».

Governi e amministrazioni sono consapevoli di questo quadro?

«Di solito no, a parte alcune eccezioni qualificate. Ci sono diversi fattori che concorrono. Uno riguarda la carenza di studi specifici sulle articolazioni della Fratellanza in Occidente. Ma il versante più delicato è costituito dalla segretezza: ormai sostanzialmente superata nei Paesi arabi, ancora praticata altrove. Nella testimonianza dei fuoriusciti, questo è uno degli aspetti più ricorrenti, che spesso va di pari passo con il razzismo interno e con il nepotismo strutturale. Poche famiglie detengono le cariche più importanti, esercitando un potere che si è in parte emancipato dalle logiche mediorientali. Anzi, quello che accade nei Paesi d’origine ha oggi un impatto abbastanza limitato sulla Fratellanza occidentale».

Come mai?

«Le Primavere arabe hanno portato a una battuta d’arresto nell’espansione dei Fratelli musulmani. Basta pensare a quanto accaduto in Egitto, dove la vittoria elettorale della Fratellanza non ha impedito che il governo guidato da Mohamed Morsi fosse rovesciato dai militari fedeli al generale al-Sisi. La delusione che ne è seguita ha comportato un allontanamento di molti musulmani occidentali dall’ideologia islamista oppure un loro avvicinamento ad altri movimenti, come quelli che fanno capo al salafismo. Oltre a questo, c’è in gioco una questione generazionale tutt’altro che irrilevante. Anche nell’ambito della Fratellanza, le seconde generazioni sono portatrici di una mentalità che a volte produce risultati sorprendenti. In alcuni Paesi, per esempio, le organizzazioni giovanili si alleano con i movimenti Lgtb, con tutte le tensioni che possono derivarne. Ma già in passato, ai tempi della guerra in Iraq, nella coalizione britannica Stop the Wari Fratelli musulmani si erano trovati a fianco dell’estrema sinistra, provocando una forte frizione all’interno del movimento»

Per motivi ideologici?

«Più che altro per considerazioni di opportunità. In Occidente la Fratellanza preferisce evitare di assumere posizioni troppo compromettenti . C’è una tendenza al tatticismo che spesso rischia di prevalere. Questo potrebbe valere anche per alcune scelte delle seconde generazioni, certo, ed è comunque incontestabile se guardiamo al passato. Perfino su questioni cruciali, come il divieto del velo islamico in Francia, la Fratellanza ha evitato la rottura, pur di continuare a intrattenere rapporti più vantaggiosi con lo Stato. Si tratta di un calcolo costi-benefici, da intendere anche in senso letterale».

A che cosa si riferisce?

«Al fatto che, tra le risorse economiche di cui dispone la Fratellanza in Occidente, non rientrano soltanto le raccolte di fondi all’interno della comunità locale, le attività imprenditoriali e finanziarie, spesso relative ad alcuni aspetti della vita religiosa (la certificazione dei cibi halal, la gestione dei cimiteri musulmani, i pellegrinaggi alla Mecca), e le sovvenzioni di Paesi esteri come la Turchia o il Qatar. I governi occidentali e la stessa Unione Europea contribuiscono in maniera considerevole al sostegno dell’organizzazione, attraverso contributi erogati a programmi per la lotta all’islamofobia, per l’integrazione e per la prevenzione della radicalizzazione. E questo è un altro motivo per cui le diramazioni della Fratellanza meriterebbero maggior attenzione».

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