sabato 15 gennaio 2022
Indagarne il rapporto mettendo da parte ogni dogmatismo, è essenziale per il nostro tempo, soprattutto se il concetto di certezza si declina in termini di speranza. Lo studio di Pitta e Lipari
Una Bibbia di Gutenberg

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Nell’ottobre scorso sulle pagine di questo giornale, ispirato da recenti eventi giudiziari e non, affrontavamo il quesito: 'Ci sarà mai un diritto all’altezza del Vangelo?'. La risposta negativa a tale domanda non può essere né sbrigativa, né superficiale, ma dovrà necessariamente articolarsi attraverso un fecondo confronto-dialogo fra teologi e giuristi, fino all’elaborazione di una vera e propria 'teologia del diritto', che non riguardi soltanto quello che si denomina 'diritto canonico', bensì il diritto tout court. Del resto, la negazione assoluta di qualsiasi rapporto fra i due ambiti avrebbe, per i credenti, il nefasto esito di relegare il messaggio biblico ed evangelico nella pura utopia, priva di riscontri concreti nella società e nella storia. Una recente pubblicazione Gregorian & Biblical Press, che inaugura la collana 'Perle', dal titolo La giustizia. Bibbia e giurisprudenza in dialogo , viene incontro a tale esigenza di approfondimento e offre un contributo notevole a un dibattito da perseguire e proseguire con passione, come animati dalla passione sono i due autori di questo volumetto: Antonio Pitta, biblista e pro-rettore della Lateranense e Nicolò Lipari, professore emerito di istituzioni di diritto privato alla Sapienza di Roma. Da specialista di Paolo, e in particolare della Lettera ai Romani, Pitta affronta il tema nell’orizzonte e nella prospettiva della teologia paolina, con stile narrativo e coinvolgente. Né può ignorare, e di fatto non ignora, l’ermeneutica luterana e riformata (nella fattispecie barthiana) del testo neotestamentario, richiamando tre prospettive che mi sono particolarmente care: la metafora del labirinto, applicata alla legge, il senso del 'tragico', nel dilemma del simul peccator et iustus , e la figura di Narciso, sul quale con troppa facilità ci ritroviamo a inveire come credenti. Il contributo di Lipari, intriso di riferimenti al Cristianesimo, si mostra attento a sviluppare quello che denomina «principio di ragionevolezza », declinando il tema della giustizia in termini di «speranza», piuttosto che di certezza. E sta qui un notevole merito di queste pagine, dominate dalla preoccupa- zione fondamentale di evitare ogni dogmatismo, sia in campo giuridico che in ambito teologico. Di qui l’attenzione e il richiamo a figure del pensiero credente come il cardinale Carlo Maria Martini e Pietro Scoppola. Ci sembra di comprendere che la ragionevolezza richiamata e assunta debba intendersi nell’orizzonte dell’ermeneutica, prospettiva che da sempre accomuna l’esercizio della teologia e quello della giurisprudenza. Sarebbe tuttavia limitativo e datato ritenere che tale attività interpretativa, che costituisce il compito fondamentale di entrambi gli ambiti del sapere, riguardasse semplicemente il rapporto coi testi giuridici e religiosi (ricordiamo a tal proposito un famoso testo di Platone, nel quale anche si sostiene che in tal modo si conosce solo ciò che è stato detto, ma «se sia vero non l’ha appreso» - Epimenide , 975c). Si tratta invece di interpretare l’esistenza che precede, accompagna e segue le attestazioni testuali ed è questa la linea che vado inseguendo, nella consapevolezza dell’eccedenza della rivelazione sul testo che la attesta, ma non la esaurisce. Al di là di singoli passaggi oltremodo significativi dei due saggi presenti nel libro, risulta particolarmente stimolante il fatto che esso si concluda con una serie di quesiti che il giurista pone all’esegeta, sotto il segno della sua preoccupazione di fondo: evitare il dogmatismo. Tali domande aprono a ulteriori approfondimenti, nella consapevolezza che fra Bibbia (esegesi dell’Antico e del Nuovo Testamento) e Giurisprudenza si pone il sapere teologico, chiamato a liberarsi proprio dalla tentazione dogmatica e a esercitarsi come pensiero di frontiera non solo epistemologica (ossia nel dialogo fra ambiti disciplinari diversi), ma altresì contestuale, come mostra la teologia fondamentale che si cerca di praticare nell’Università Lateranense, da cui non è aliena l’esegesi biblica, così ben rappresentata da Antonio Pitta in questa sede e non solo. Proviamo a offrire degli spunti di risposta alle domande di Nicolò Lipari, perché il dibattito si animi ulteriormente e possa trasformarsi in fecondo dialogo. La prima si chiede cosa possano suggerire le Scritture Sante al contesto contemporaneo, ossia se si dia una qualche possibilità di 'attualizzazione' del messaggio biblico. Una modalità decisiva propria delle Antiche Scritture, che le Nuove richiamano e superano nello stesso tempo, la rinveniamo nei 'codici delle alleanze'. La 'categoria' biblica fondamentale, che possiamo considerare come una frontiera fra diritto e teologia, anche nell’oggi della storia tanto cara al Lipari, è, infatti, quella della berit (alleanza), che, nella sua duplice valenza di noachica e sinaitica, possiamo per analogia riferire rispettivamente alla distinzione fra diritto 'naturale' e diritto 'positivo'. Alleanza che nella prospettiva paolina più che a Mosè va riferita ad Abramo. Sarebbe del resto sbrigativo sostenere che Gesù di Nazareth sia venuto a proporre un’alleanza senza clausole, piuttosto siamo di fronte all’unica, impegnativa e determinante clausola dell’amore anche verso i nemici. La seconda questione riguarda il dogmatismo, di cui sarebbe intrisa l’esegesi, anche quella qui proposta. Il metodo adottato dal collega biblista sembra decisamente escludere questa chiave interpretativa, che potrà forse riguardare altri esponenti non tanto della scienza esegetica quanto del biblicismo, sempre in agguato. I riferimenti all’ambito greco-romano e al contesto, di cui abbonda la trattazione di Pitta, offrono più di un motivo perché si debba escludere tale intenzionalità dal suo saggio. Infine, sulla base della precedente analisi, si può facilmente rispondere alla terza domanda: «Non è questo un atteggiamento che rischia di negare alla storia quella che, per un credente, dovrebbe essere la sua chiave di lettura fondamentale: assumerla quale strumento essenziale del disegno redentivo?». Dirò di più: ormai da tempo, nella riflessione teologica e nell’esegesi orientata dal metodo della critica storica, la storia non è più vista come 'strumento' o 'palcoscenico' sul quale si rappresentano le vicende del rapporto Dio / uomo, ma come vero e proprio 'luogo teologico', laddove una categoria 'giuridica', appartenente al contesto culturale e, oseremmo dire 'politico', del tempo, come quella di 'alleanza', diviene decisiva per significare la relazione fra l’Eterno e il tempo, l’Infinito e il finito. Si tratta di una prospettiva che chiama in causa la dinamica stessa della rivelazione ebraico- cristiana e proprio in riferimento a tale dinamica il Cristianesimo ha potuto confrontarsi ed inglobare il diritto romano e la sua decisiva lezione per l’umanità.

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