sabato 27 marzo 2021
Parla Milena Santerini, autrice di un saggio su aggressività, violenza e pregiudizi: «Prima di manifestarsi l’intolleranza cresce nel silenzio, per questo occorre sempre puntare sul dialogo»
Milena Santerini

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Non ci sono alternative: con gli odiatori bisogna parlare. Pacatamente, ostinatamente, anche nelle circostanze più delicate. Compresa la più insidiosa di tutte, quella nella quale la voce del pregiudizio sembra provenire da dentro di noi. Dalle nostre paure, forse, o forse soltanto dalla nostra pigrizia. Della necessità del dialogo, inteso anzitutto come impegno educativo, è convinta Milena Santerini, che per Cortina ha appena pubblicato La mente ostile (pagine 242, euro 19,00), un viaggio attraverso le «forme dell’odio contemporaneo » che prende le mosse proprio dal conflitto interiore tra emozione e ragione. Docente di Pedagogia generale e interculturale all’Università Cattolica di Milano, Santerini ricopre tra l’altro l’incarico di coordinatrice nazionale della lotta contro l’antisemitismo. «Che è un caso esemplare di odio – sottolinea – ma purtroppo non l’unico».

L’impressione è risentimento e aggressività dilaghino: ma la nostra non si presenta come una società più tollerante?

Le società non sono tutte uguali, tanto per cominciare, e all’interno di una stessa società convivono persone e gruppi largamente differenziati tra loro dal punto di vista culturale e generazionale. Al di là di questo, l’evoluzione sociale non va necessariamente di pari passo con quella della mente umana, che è ancora contraddistinta dai meccanismi di reazione ancestrali nei confronti di quanto viene percepito come minaccia. È l’assetto del cosiddetto cervello primitivo, a suo modo necessario per sopravvivere, ma non sufficiente per vivere bene. Per questo, nel corso del tempo, abbiamo interiorizzato processi di cooperazione che ci permettono di muoverci al di fuori dello schematismo attacco/difesa. Il problema, però, è che in tempi di crisi il richiamo dei comportamenti primitivi torna a farsi sentire in modo molto insistente.

Si riferisce alla sensazione di insicurezza suscitata dalla pandemia?

Diciamo che, in una fase come l’attuale, la tentazione di dividere il mondo tra amici e nemici diventa particolarmente forte. L’abbiamo visto fin dal principio, quando si discuteva di contagio, e torniamo a vederlo in questi giorni, con le tensioni attorno ai piani vaccinali. Il vero rischio non sta nella singola fiammata polemica, ma nell’indebolimento di una coscienza comune che, almeno in Europa, si era affermata con fatica e sofferenza dopo le tragedie delle Guerre mondiali e della Shoah. In qualche misura, il «mai più» sul quale ci eravamo accordati oggi suona meno convinto di prima, nel suo complesso la coscienza storica appare molto indebolita, i sistemi di contenimento che avevamo elaborato risultano meno robusti.

La rete ha una responsabilità specifica in questo senso?

Internet rappresenta una risorsa straordinaria, lo sappiamo, ma nello stesso tempo può essere un temibile strumento di propaganda, un mezzo che, rendendo liquidi i sentimenti di ostilità, li rifonde così da renderli di nuovo disponibili. La dinamica è molto complessa, come si può constatare a proposito delle espressioni di sessismo che in rete assumono spesso una violenza impressionante. Quando si provano a ricostruire le origini della misoginia digitale, ci si accorge che spesso a risultare intollerabile è l’immagine di una donna assertiva e competente, capace di insidiare alcuni ruoli professionali e sociali che fino a qualche tempo fa erano considerati esclusivamente maschile. Il punto è che questa stessa immagine è promossa proprio dal web, che a sua volta finisce per catalizzare delusioni, insoddisfazioni, risentimenti. Sentendosi minacciato, il maschio si rivale contro la femmina. Anzi, contro le femmine, perché l’odio è rivolto di preferenza al gruppo più che al singolo.

Come mai?

Forse perché questo permette di avere a disposizione una certa abbondanza di capri espiatori, ossia di soggetti sui quali scaricare i sentimenti negativi che non riusciamo più a dominare. In questo senso, i fantasmi che abbiamo visto agitarsi da quando è iniziata la pandemia non fanno altro che confermare la necessità primordiale di individuare e, se possibile, punire il presunto colpevole. Non per niente le teorie del complotto, che pure sono sempre esistite, hanno ripreso vigore con l’avanzata della globalizzazione: più ci si sente inermi davanti a qualcosa che non si arriva a controllare, più si è inclini a fantasticare di un potere incontrollabile e occulto.

Questo significa che l’odio è sempre uguale a sé stesso?

Le manifestazioni possono essere molto simili tra loro, anche perché sono veicolate da dispositivi ricorrenti, i principali dei quali sono senza dubbio la disumanizzazione e l’esclusione dell’altro. Ma le differenze ci sono, specie per quanto concerne le motivazioni, ed è su questi elementi distintivi che occorre insistere per non rendere generico e inconcludente il discorso sull’odio. Nella fattispecie, il razzismo non equivale all’antisemitismo, il quale non può essere assimilato all’odio antimusulmano. Il razzista ha la mentalità del dominatore, retaggio del passato coloniale, laddove l’antisemita teme di essere dominato dagli ebrei, verso i quali sviluppa un’avversione che conserva una sua indubbia peculiarità, non solo in termini di continuità storica. Contro i musulmani, infine, si riversano paure nel contempo ataviche e recentissime, in un’inestricabile confusione di livelli che ostacola qualsiasi tentativo di obiettività. Le cause sono diverse, ripeto, per quanto il risultato sia sempre costituito da un disimpegno morale che ci illude di poter fare all’altro quello che mai vorremmo fosse fatto a noi.

Ed è su questo aspetto che occorre intervenire?

Esattamente. L’odio non si vince se non si favorisce un’educazione all’interiorità che passa attraverso l’accettazione di determinate forme di ritegno per poi condurre all’assunzione di responsabilità. In generale, l’odiatore è afflitto da una sorta di cecità selettiva: dell’altro vede solo il male, perché per lui, in ultima istanza, l’altro è il male. Analogamente, di sé non vede che il bene e quindi non è disposto a mettersi in discussione. Prima ancora del giudizio di valore, è la ricerca di senso a fare difetto, quella domanda sul significato della realtà che per secoli ha rappresentato il fondamento dell’educazione cristiana. Solo ristabilendo questa premessa, si può dialogare in modo efficace. Perché il dialogo è necessario, lo ribadisco. La parola è l’unico mezzo che possa sfidare l’omertà in cui l’odio prospera. Non dimentichiamo mai che, quando c’è da prendersela con qualcuno, ci sono quelli che parlano, quelli che si aggregano e quelli che, presto o tardi, agiscono. Se non vogliamo essere complici, dobbiamo anzitutto rompere il silenzio.

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