mercoledì 17 febbraio 2021
Nuovi volumi valorizzano il ruolo dell’autore tedesco, lungo una linea che da Goethe arriva fino alla pandemia. L’amore per l’Italia e la necessità di dialogo tra scienza e umanesimo
Il poeta tedesco Durs Grünbein

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Anche quando non ne hanno l’intenzione, i poeti finiscono sempre per indovinare. Come Durs Grünbein, una delle voci più importanti della letteratura tedesca contemporanea. Il 24 ottobre 2019, pochi mesi prima del manifestarsi della pandemia, era a Milano, invitato dall’Università Statale per un incontro in occasione del trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. La sua era una riflessione da poeta, non da storico né da politico. Ragionava del presente a partire dalla Stazione Centrale del capoluogo lombardo, crocevia di contraddizioni che vanno dall’evidente discontinuità che l’edificio produce nel tessuto urbano in quanto «monumento all’inconscio della grande cultura borghese al tramonto» al fatto che, progettata con buon anticipo rispetto all’insediamento del regime, la Centrale sia in qualche modo divenuta uno dei simboli del fascismo. Quel fascismo, aggiungeva Grünbein, che a Milano nacque ufficialmente nel 1919 e che lo stesso Mussolini considerava anzitutto «un fenomeno milanese».

No, non è questa la profezia del Discorso di Milano ora reso disponibile insieme con una significativa scelta di versi inediti in Il bosco bianco (Mimesis, pagine 100, euro 12,00, originale tedesco a fronte). A curare la traduzione e a firmare il denso saggio finale sul significato civile della poesia di Grünbein è la germanista Rosalba Maletta, alla cui iniziativa risale anche l’invito alla Statale nel 2019, culminato nella consegna di una pergamena che, in sostanza, impegnava Milano a conferire la cittadinanza onoraria a Grünbein. Ecco, il presagio o, se si preferisce, la previsione involontaria si colloca proprio a questo punto della meditazione del poeta, che nel già ricordato Discorso ammette di aver viaggiato in aereo e non in treno, come sarebbe stato preferibile in termini sia di impatto ambientale, sia di maggior aderenza all’argomento preso in esame: la Stazione Centrale, appunto. «In futuro non sarebbe meglio regolare la faccenda con una videoconferenza?», scherzava Grünbein, ancora inconsapevole di quanto spazio i collegamenti e le piattaforme e le dirette streaming avrebbero preso da lì a breve nella vita di tutti.

Ma questo è un dettaglio, si potrebbe obiettare: perché soffermarsi su una battuta quando c’è di mezzo la poesia? Per una serie di buone ragioni, la principale delle quali consiste nel fatto che l’opera di Grünbein è attraversata da una vena di ironia che, semplicemente, rende inapplicabile la nozione stessa di impoetico. Per lui, come per ogni autore dotato di personalità e consapevolezza, poetico è ciò di cui la poesia si occupa, senza alcuna preclusione, senza pregiudizi di sorta. È un elemento che emerge con chiarezza anche dalla campionatura di inediti che troviamo nel Bosco bianco, titolo che riprende quello di una composizione in cui si celebra l’epifania del Duomo di Milano («Sopra la Fabbrica dalle mille torrette / era un azzurro freddo a perdita d’occhio»). Nello stesso modo, però, i versi di Grünbein possono misurarsi con l’emergenza del coronavirus, mimando efficacemente il linguaggio infantile («Succede così in fretta, / scrive una bambina nel diario, / e qualcosa come un brutto sogno, / che divora la primavera, / come arresti domiciliari che presto finiranno. / Non tutti si rivedranno ») oppure impossessandosi della terminologia medica («Nell’albero bronchiale a ogni respiro / si impiglia l’apprensione / per il prossimo. Il Più Vicino»).

Nato nel 1962 a Dresda, nell’allora Ddr, Grünbein corrisponde perfettamente alla descrizione che di lui fa il rettore della Statale, Elio Franzini, nella nota con cui si apre Il bosco bianco: «quasi un esponente contemporaneo di un’interazione che restaura il concetto goetheano di Weltliteratur, di letteratura universale». E universale, in questo senso, è anche la convivenza in uno stesso testo di livelli e intonazioni differenti, tra elegia, invettiva e satira. Lo confermano le poesie di un’altra raccolta di Grünbein appena arrivata nelle librerie italiane, Schiuma di quanti, allestita da Anna Maria Carpi per Einaudi (pagine 198, euro 14,50, con testo a fronte). Anche questa selezione, che attinge alle pubblicazioni più recenti, propone numerosi inediti, contribuendo a rafforzare la reputazione di Grünbein come modello del poeta europeo nel XXI secolo. Una qualifica che gli appartiene per la determinazione con cui continua a esplorare le ricadute della Guerra Fredda intesa come «inverno della storia», lui che al memorabile inverno del 1619, al culmine della piccola era glaciale moderna, ha dedicato il magnifico poemetto Della neve ovvero Cartesio in Germania.

Ma pienamente europeo, e veramente erede di Goethe, Grünbein si rivela anche nell’amore appassionato per il paesaggio e la tradizione italiana (si pensi all’«album romano» e alla sequenza sui pini nel volume einaudiano), per la propensione all’eclettismo dei saperi, per la programmatica contaminazione fra umanesimo e scienza che gli permette di dettare versi come questi: «Se la parola è bolle, è momento / e non solo metafora che in un attimo esplode. / Ogni mandorlo è una schiuma di quanti».

«Le parole non dormono nei dizionari», scrive altrove Grünbein, con una dichiarazione di poetica che trova eco nelle annotazioni di Rosalba Maletta in calce a Il bosco bianco: «La parola poetica si muove ai margini della teologia e della retorica. Ricupera quei margini nelle figure della vita quotidiana». I capolavori dell’espressionismo cinematografico, il bric-à-brac del mercato delle pulci, la fantasia iperrealista di un Circo Massimo trasformato in «un’arena / per i lanciatori di coltelli». La poesia è dappertutto, quando c’è un poeta che sappia nominarla.

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