domenica 28 marzo 2021
L’itinerario di Dante si conclude sulle più alte vette. Le miserie lasciate nella desolata pianura degli uomini non sono state dimenticate, ma ormai sono viste con occhi nuovi
Inf., III-IV: Dante e Virgilio nel Limbo al cospetto di Omero, Orazio, Ovidio, Lucano

Inf., III-IV: Dante e Virgilio nel Limbo al cospetto di Omero, Orazio, Ovidio, Lucano - Biblioteca Vaticana

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Dall’esilio terreno alla patria celeste, la Divina Commedia è tutta un’epifania di speranza. Inizialmente è l’angosciante anelito di Dante di uscire dalla «selva oscura» ( Inf. I,1) in cui si era smarrito; poi, la forte tensione per raggiungere il colle della «divina foresta» ( Purg. XXVIII, 2); infine, dopo il doloroso distacco da Virgilio e la comparsa di Beatrice, la consolante certezza di esser entrato nel regno «che solo amore e luce ha per confine» ( Par. XXVIII, 53.54). Dall’umana necessità di sperare – bene supremo che i dannati dell’Inferno hanno definitivamente perduto ( Inf. III,9) – si passa dunque, procedendo nell’ascesa, alla speranza come virtù teologale, che si affianca alle due sorelle maggiori – come avrebbe detto Péguy –, la fede e la carità, per camminare insieme verso Dio.

Sono le tre “donne” che nel canto XXIX, 121-129 del Purgatorio danzano in cerchio sul lato destro del carro, ciascuna risplendente di un proprio colore (bianca la fede, verde smeraldo la speranza, rossa la carità). La fede è la radice della speranza ( Par. XXIV, 73-75), perché se l’uomo non arriva a «conoscere» il Suo nome (Sal 9,11; 91,14), cioè a professare la fede nel Signore («Sperino in te»; «Sperent in te», Par. XXV, 73, 98), la sua speranza cammina al buio, senza mai trovare la via maestra della verità di sé stesso e della sua sospirata felicità. La carità è l’altra virtù essenziale, che dà forma e compimento alla fede, perché, quanto più si esercita la carità, fondandola in Dio e nel suo amore, tanto più ci si avvicina all’«amore perfetto» (1Gv 4,12) che in modo perfetto unisce anche le altre virtù. Beatrice è per Dante il volto della speranza. È lei che, mossa dall’amore («amor mi mosse», Inf. II, 72), lo guida e lo spinge in avanti verso quell’Amore di cui già gode; è lei che, innalzata da creatura umana a figura della teologia e a rappresentante della sapienza divina, è scesa dal cielo per aiutarlo a salire verso il Bene sommo che è Dio.

Di grado in grado, Beatrice non emana più soltanto il dolce profumo della donna bella e virtuosa amata da Dante in gioventù; lei gli porta il profumo stesso di Dio, dei santi e dei beati, dei maestri e dei testimoni della fede (da Tommaso a Bonaventura, da Francesco a Domenico a Bernardo) che sono con lei in paradiso. Sotto la guida di Beatrice, con davanti i suoi occhi luminosi e il suo radioso sorriso, la speranza di Dante si fa via via realtà concreta; non è un’illusione destinata a perdersi e a svanire; la speranza è sempre davanti a lui come orizzonte verso il quale alzare lo sguardo e camminare. Quando raggiunge questo orizzonte, la speranza ha compiuto il suo ultimo tragitto e si trasforma in un’epifania di luce, nell’inebriante realtà della gloria di Dio e della gloria di Cristo, che da sole tutto illuminano. Lì anche Dante può contemplare il mistero trinitario (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) e volgere la sua devota preghiera a Maria, la «vergine madre », «umile e alta più che creatura », «termine fisso d’etterno consiglio» ( Par. XXXIII, 1-3). Il viaggio di Dante si conclude sulle più alte vette. Le miserie lasciate nella desolata pianura degli uomini non sono state dimenticate, ma il mondo di lassù gli fa ormai vedere con occhi nuovi anche le realtà di quaggiù.

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