martedì 5 novembre 2013
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Silvia Ronchey saluta all’indiana, con un sonoro namasté, e poco dopo discetta di tomismo. Così, come se niente fosse. Com’è giusto che sia, anzi, per una bizantinista curiosa del proprio tempo. Nel suo curriculum la divulgazione elegante convive con la ricerca specialistica, svolta in particolare sui confini orientali del cristianesimo. Il suo libro più importante è forse L’enigma di Piero (Rizzoli 2007), dottissima analisi della Flagellazione urbinate; il più amato è di sicuro la Storia di Barlaam e Ioasaf (Einaudi), ovvero la vita del Buddha trasposta nel contesto religioso e culturale dell’Impero romano d’Oriente. Una rete di figure e di avvenimenti che, negli ultimi mesi, è stata arricchita dal pontificato di Francesco. «Un Papa di meravigliosa semplicità e di straordinaria raffinatezza» sintetizza Silvia Ronchey. «Ogni sua azione, ogni sua parola si presta a una duplice lettura», aggiunge.Lei che cosa preferisce: la semplicità o la raffinatezza?«Non sono separabili l’una dall’altra – risponde –. Lo si è capito subito, fin dal momento in cui papa Bergoglio si è affacciato dalla loggia della basilica di San Pietro. Quell’inginocchiarsi davanti al popolo, quel chiedere la benedizione dei fedeli erano gesti talmente trasparenti da non esigere, in apparenza, alcuna spiegazione. Insieme, però, erano la ripresa sapiente di un’idea di papato antichissima, quella che corrisponde alla sezione originaria del Liber Pontificalis».Ci stiamo addentrando nel Medioevo.«Stiamo risalendo al periodo in cui il Papa non abitava in Vaticano, ma nel Palazzo lateranense. Non vorrei eccedere nella congettura, ma ai miei occhi anche la scelta di risiedere in Santa Marta e non nell’Appartamento apostolico allude, almeno per via simbolica, a questo ritorno in Laterano e, di conseguenza, a una visione premonarchica del papato. Vescovo di Roma, appunto, prima che Sommo Pontefice. È uno spostamento di centro e baricentro al quale sono del tutto estranee malizie pauperistiche o demagogiche. Con questa decisione, al contrario, Francesco esprime una profonda consapevolezza sulla storia della Chiesa e sul suo destino».Quali prospettive si aprono, secondo lei?«Una interna alla Chiesa stessa, nella direzione di una ritrovata collegialità, lungo la linea indicata già dai Padri orientali e poi ripresa dal Concilio Vaticano II. Nessuna deriva “modernista” in questo, semmai la volontà di riappropriarsi della tradizione in tutta la sua forza vitale e innovatrice. Lo si comprende, per esempio, dall’apprezzamento di Francesco per il tomismo autentico, contrapposto al “tomismo decadente” degli ultimi decenni. C’è una genialità del pensiero cristiano che occorre preservare, non per opporsi alla tradizione, ma per permettere che la tradizione apra spazi ulteriori. Sa che cosa mi fa tornare in mente l’atteggiamento del Papa?»Mi dica.«Un progetto al quale stava lavorando Muriel Spark poco prima di morire, nel 2006. Convertitasi negli anni Cinquanta, di recente la scrittrice inglese aveva abbozzato un manifesto degli intellettuali cattolici, incentrato sull’urgenza di rivalutare l’elemento trinitario e quindi dinamico, teso all’evoluzione in campo teologico».Un desiderio che ora trova realizzazione?«Direi di sì, per quanto in prima istanza Francesco, a differenza del suo predecessore, non sia un teologo ma un pastore. Eppure il sottotesto dei suoi comportamenti è precisissimo anche dal punto di vista concettuale. Non dobbiamo dimenticare, a questo proposito, che Bergoglio proviene da un contesto nel quale la durezza del vivere si impone con una forza tale da rendere immediato il ricorso alla prassi pastorale».E verso l’esterno?«Anche in questo caso le prospettive vanno di pari passo, si intrecciano. Una Chiesa cattolica capace di recuperare in modo creativo le proprie origini è, coerentemente, una Chiesa che si pone in dialogo con le altre confessioni cristiane, prima fra tutte quelle orientali. L’incontro tra Francesco e il patriarca Bartolomeo è stato, dal mio punto di vista, un evento la cui portata deve ancora essere apprezzata nella sua pienezza. In quell’occasione, fra l’altro, il patriarca di Costantinopoli ha invitato il vescovo di Roma a visitare la grande mostra su Bisanzio che si terrà proprio a Roma, sul Quirinale, nel 2015. Un intreccio vertiginoso, che però lascia intendere quanto il ritorno alle origini sia portatore di innovazione».Francesco parla spesso del ruolo della donna...«Parla di “genio femminile”, per l’esattezza, ed è un’espressione bellissima, che rimanda a Goethe e all’“eterno femminino” cantato nel Faust. L’ho detto e lo ripeto: questo è un Papa irresistibile per i media, ma il suo non è un messaggio mediatico. I riferimenti culturali sono innumerevoli, si va Hölderlin a Borges, spesso con la mediazione di Ignazio di Loyola».E Francesco d’Assisi?«Il più sottile fra i mistici d’Occidente, il più vicino ai “santi folli” di Bisanzio. Quando, a Rio de Janeiro, il Papa invita i ragazzi a hacer ruido, a fare chiasso, adopera un linguaggio che sconfina nella mistica. Meravigliosamente semplice, insisto. E straordinariamente raffinato».
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